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Dark Shadows di Tim Burton (o la maledizione di non essere umani)
Creato il 28 maggio 2012 da SpaceoddityVi si racconta la storia di una maledizione che, in pieno Settecento, la bella e algida Angelique (Eva Green) lancia sul suo amato/odiato Barnabas Collins (Johnny Depp), che non ricambia la sua ossessione: l'uomo, ambito, desiderato, concupito, si innamora della pura Josette (Bella Heathcote), ma per non condividere le brame dell'altra donna perde tutto, la sua ragazza e la sua vita. Diventa un vampiro e viene rinchiuso per anni in una cassa di ferro, in attesa di un risveglio. Finalmente, nel 1972, viene dissotterrata la sua bara, e Barnabas può tornare tra i vivi. Trova un mondo diverso e, un po' come Edward, mani di forbice, deve adeguarsi alle differenze, come può. Torna nella sua casa e trova, tra i discendenti, una situazione a dir poco riprovevole. Responsabile della casa è l'altera Elizabeth (Michelle Pfeiffer), che a stento controlla la famiglia: la dott.ssa Julia Hoffman (un'irriconoscibile Helena Bonham Carter), la figlia Carolyn (Chloë Grace Moretz), il fratello Roger (Jonny Lee Miller), l'irrequieto suo figlio David (Gulliver McGrath) e, da pochissimo, anche la sua istitutrice Victoria... per non parlare della servitù. Inoltre, c'è un problema: l'azienda ittica di famiglia è ormai in rovina, come il nome Collins e la casa, divorato tutto dalla fortuna di Angie Bouchard... La guerra ricomincia.
Dark Shadows è, senz'altro, un film al plurale. Se il protagonismo di Johnny Depp è indiscutibile, al punto che il nome dell'attore compare prima del titolo, è anche vero che in questo caso Tim Burton ha saputo creare un amalgama che funziona, mantiene il ritmo e attrae. La beffarda miscela tutta sua di gotico e grottesco trova in questo film un suo nuovo, pregevole punto di arrivo: alcune soluzioni (p. es. la disperazione e poi la rabbia di Barnabas sul pianoforte elettrico) sono da antologia e, in generale, lo stesso può dirsi dell'uso parodico dei suoni e delle musiche e di certi momenti davvero buoni della sceneggiatura di Seth Grahame-Smith (già con dimestichezza con storie di vampiri e reclutato per un - improbabilissimo - Beetlejuice 2).
Sul set, sui colori e la fotografia, per non parlare degli interpreti, io non discuterei: Tim Burton realizza qui un'opera meritoria che, come molti film recenti, coniuga spunti da mitologie diverse, con in più la grazia dell'ironia che rivisita e insieme stempera la moda dei vampiri da qualche tempo in qua così cogente. In più, Dark Shadows ha il pregio di inserirsi nel più conclamato citazionismo americano (a prescindere dal genere "vampiri", Stephen King, L'esorcista, La morte ti fa bella e mille altri miti), senza però perdere mai la bussola, rimanendo sempre Tim Burton. La favola Dark Shadows ha una sua morale che riconosco in filigrana nel resto della produzione, e questa favola mi sembra che parli della maledizione di non essere umani, di non riuscire a vivere pienamente la propria condizione di diversità rispetto a sé stessi e al mondo. Mi sembra che la narrativa fantastica di Tim Burton si rivolga a quel sentore di adolescenza che scorre già nella tarda infanzia e predomina nei cosiddetti adulti del mondo attuale, me compreso: il suo, è un raccontare di incompiutezze, di languori e di forse incontrollabili, di possessi dell'anima e del corpo. Per questo il sesso ha un'importanza così chiara nei suoi film, è lo scaturire di una forza più grande in anime inermi.
Tim Burton associa il non essere del tutto umani al non essere umani: è l'ossessione che diventa fantasia. Le sue creature nascono da una metamorfosi dall'eccezionale al paradossale, sempre all'insegna della parodia. I tratti somatici e comportamentali tradiscono - come accadeva in Ovidio - gli elementi della nuova creatura: ma in Tim Burton, e in Dark Shadows in particolare, accade che si riconfigurano come riferimenti narrativi completi, con tanto di prevedibilità. Al pubblico piace essere sorpreso da ciò che già conosce (mutatis mutandis lo diceva anche Freud), da situazioni tipiche, da personaggi noti. Spiace, però, che a fianco di questa preveggenza dello spettatore movie-addicted si semplifichi tanto la trama da deludere un po', soprattutto alla fine del film. Certe soluzioni sono sbrigative e hanno il sapore di tagli mal riusciti rispetto al plot originale e magari anche al girato. Si esce così, nonostante gli indubbi meriti, con un po' di amaro in bocca: come se una favola (suggestiva quant'altre mai) potesse finire comunque in altro modo.
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