Das Cabinet des Dr. Caligari live

Creato il 23 febbraio 2012 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

È il cinema una machine à hypnose, è lo strumento-mondo attraverso il quale operare una nuova possessione del mondo attraverso gli occhi? Ne era sicuro Jean Epstein, lo affermava ormai un secolo fa, con quella fiducia avanguardista oggi spazzata via dall’appiattimento mercantile dell’immaginario.

E dell’ipnosi come stato d’essere del cinema il Das Cabinet des Dr. Caligari- ri-presentato allo Spazio Novecento con la live computer soundtrack a cura di Edison Studio – è uno dei più efficaci ed evidenti esempi. Il film di Robert Wiene rimane tuttora un’esperienza sinistra di discesa tra gli inferi della mente, lì dove l’espressione prevale sull’indagine-perlustrazione della superficie, dove si va scavando nella logica interna di formazione e proiezione delle immagini.

Vale la pena ricordare – ce lo dice anche J Hoberman nel suo Bridge of Light – quanto quel 1919 in cui il Dr Caligari venne girato fu l’inizio di una nuova era: da un lato la fine della guerra e il primo problematico assestamento dopo la rivoluzione russa, il crollo delle dinastie imperiali, gli scioperi e il proibizionismo negli Usa; dall’altro la prima germinazione del Dada, i primi numeri di Literature di Breton, i primi scritti di Brecht.

E nei volti di Cesare il sonnambulo, in quelli del dottore, di Francis, e delle altre fantasmatiche presenze sembra ci fossero già in nuce le paure, le proiezioni dell’inferno che sarebbe seguito a breve nella Germania nazionalsocialista. Inquieta ancora oggi quello stato “altro” dell’immagine, disturbante perdita d’orientamento dell’occhio cartesiano, qui deformato, virato, distorto, sbilanciato, grottesco, esoterizzante, nella vertigine vorticosa del perturbante.

Quello stato di sonno controllato, quello di chi come il sonnambulo Cesare sembra costantemente mosso da forze oscure e al contempo evidentemente insofferente – recalcitrante come volontà animale in gabbia – è l’ambivalente simbolo di quella forte (mancanza di) identità, di quella tenerezza sconfitta, condizione umbratile di accumulo e rilascio di pulsioni ctonie nella quale agogniamo inconsciamente, criminalmente, di cadere una volta liberatici dall’obbligo di render conto delle nostre azioni.

Quel sound remake che a Wiene non riuscì di realizzare nella Parigi degli anni ’30 con la collaborazione di Jean Cocteau, si è compiuto in versione elettroacustica grazie all’Edison studio, un gruppo di compositori attivi da molti anni nella ricerca d’un sincretismo linguistico tra il visivo e il sonoro, e in questo caso artefici di una ulteriore “resurrezione”: resuscitare (o re-suscitare) il corpo morto della pellicola, rivitalizzarlo facendocene “sentire” tutta la morbosità, farlo uscire dalla tomba della museificazione restituendocene quell’espressionismo che è soprattutto estetica dello scricchiolio intimo ed esteriore enfatizzazione dello stesso, paura che non tramonta dal 1919 ad oggi, ma piuttosto si esalta, vissuta in uno spazio e un tempo straniante (lo Spazio Novecento che Artmediamix ha adeguatamente scelto, non fa che moltiplicare i rimandi possibili tra storia ed estetica).

La spazializzazione del suono, un’inquietudine 5.1 che varia di momento in momento dalla connotazione (le porte che sbattono, i passi) all’ironia (le deformazioni vocali), dalla dissonanza alla concitazione sincopata (basterebbero quei frames nei quali si aprono quegli occhi del sonnambulo per spalancare i nostri sensi), tra sincronie, raddoppiamenti e moltiplicazioni tra ambito visivo e sonoro, amplifica, allora, la portata dell’opera di Wiene, riconducendoci a quello stato di ipnosi al quale si accennava in apertura, tra abbandono regressivo ad un’esperienza audio-visiva, che a questo punto non può che rivelarsi psicosomatica, e riconquista di una nuova relazione con il mondo, quella che permette di scorgere sinistramente gesti clamorosi ed esagerati, prossimi alla morte che opera con camera fissa, registrando ogni compianta mossa di quei condannati al nazismo prossimo venturo.

Salvatore Insana


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