Quando ho parlato per la prima volta di open data a mia mamma, la reazione è stata “Open data? Cosa vuol dire?” Come sempre è iniziato il gioco delle associazioni, nel vano tentativo di insegnare un po’ di inglese: “Open è open, come quello che c’è scritto sul coperchio della marmellata. Data sono i dati, no?”
Alla fine siamo arrivate a parlare di quella che potrebbe essere una grande rivoluzione: i dati delle pubbliche amministrazioni aperti e disponibili per tutti i cittadini. Il principio è buono: dati a disposizione significano trasparenza, controllo, maggior fiducia, azione.
Coloro che lavorano con gli open data da qualche anno – messo da parte il cieco entusiasmo iniziale – cominciano a fare alcune riflessioni e lanciano alcuni quesiti. Il dibattito che scaturisce da queste domande si consuma a vari livelli e tra diversi attori. L’entusiasmo dunque c’è ancora, ma è più consapevole e tutto incanalato per offrire un servizio migliore o per aumentare la partecipazione.
La prima domanda riguarda la forma con cui gli addetti ai lavori rilasciano i dati. Talvolta i dati sono poco usabili perché già armonizzati, elaborati in una forma inutile. Altre volte è difficile associare un set di dati ad altri che potrebbero essere affini, perché manca la corrispondeza fra date, unità di misura, riferimenti. C’è da chiedersi se può servire una regola, un codice comune. Resta poi da capire chi può creare e imporre questa legislazione, e soprattutto chi deve controllare la corretta applicazione delle regole.
Da qui parte il dialogo sulla possibilità di creare un’istituzione che si occupi di open data. Ma istituzione a volte è sinonimo di chiusura, mancanza di libertà totale: il contrario di open insomma. Sono varie le posizioni, varie le proposte, diverse le strade da percorrere. A me sono sembrate vie complicate, ma seguendo il dibattito ho intravvisto la necessità di battere questi sentieri.
Resta un ultimo punto importante: i cittadini conoscono gli open data e soprattutto ne fanno uso? Perché con gli open data non basta leggere l’articolo di giornale che li sfrutta, non è sufficiente soffermarsi su una visualizzazione. Occorre passare all’azione: da un dato “fuori posto” si può fare qualcosa per migliorare i servizi e le nostre città. Gli open data non sono solo a servizio dei cittadini, sono anche lì per le imprese. Vedere le cose in modo trasparente significa aumentare la competitività e quindi la produttività. Per muovere le imprese però c’è bisogno di denaro: difficile che si interesssino ai dati per semplice senso civico. Assumere una persona per rendere pubblici i dati, implica la necessità di pagare il suo lavoro.
È importante dunque gioire per i passi che sono stati fatti. Resta ancora da chiedere cosa c’è da fare per sfruttare al meglio la ricchezza che abbiamo tra le mani.
Credits: From Wikipedia – by Sally from Norristown, PA, USA