Datemi una (vecchia) Canon, e vi solleverò il mondo.

Creato il 01 ottobre 2014 da Denise D'Angelilli @dueditanelcuore

Da piccola volevo fare un sacco di cose, come tutte le bambine del mondo ogni giorno cambiavo il lavoro dei sogni: aprire un’edicola, la fioraia, l’avvocato, l’attrice, la giornalista di Rolling Stone, la regista, la fotografa. Non sono ancora diventata nessuna di queste cose, ma per questo, forse, c’è ancora tempo.

Sin da quando ancora a scuola studiavo solo Gianni Rodari ho iniziato a perdere per strada la (già poca) sicurezza che avevo in me stessa, convincendomi che stare dall’altra parte di tutto mi avrebbe aiutata, e quindi scrivere senza far sapere chi sei, fare le fotografie agli altri e non a te stessa, ma non funziona poi molto perché vuol dire comunque mostrare i propri lavori agli altri e sottoporre quei tuoi stessi lavori a un giudizio che spesso non hai la forza di sostenere. Ma figuriamoci se a quell’età non vuoi fare l’artista.

Un giorno mio padre mi fece salire in macchina e mi portò davanti al passaggio a livello di Guidonia, quello che ai tempi era l’unico modo per andare da una parte all’altra della città e che ci faceva stare le mezz’ora in macchina ad aspettare ascoltando Sting o a tirare i sassi il più lontano possibile nel prato, peccato che io i sassi li lanciassi solo sui miei piedi o dietro la mia schiena, provocando le risate di mio padre. Adesso quel passaggio a livello non esiste nemmeno più, io ancora non ho imparato a lanciare i sassi e non vado a Guidonia quasi mai. Ci siamo messi lì davanti come sempre e mi ha detto: “Denise, cosa vedi?” “Il passaggio a livello, papà.” Poi ha aperto il cassettino della macchina e ha tirato fuori un disco. In copertina c’era quel passaggio a livello, ma era più bello, era in bianco e nero, aveva una luce diversa e non sembrava più il triste luogo di periferia con le erbacce tutte intorno che vedevo ogni singolo giorno. Mi ha detto “apri il disco, Denise, e leggi quello che c’è scritto dentro”. Ho letto così il nome della band, i componenti, i titoli delle canzoni, i ringraziamenti, e poi ho letto che quella foto l’aveva scattata mio padre. L’orgoglio è salito dai piedi fino a tutto il corpo, è arrivato fino alla punta della dita e alla punta di ogni singolo capello, mi ha illuminato gli occhi e fatto gocciolare il naso, e quello è stato il momento in cui ho capito che non è il tuo lavoro a definire chi sei, sono i piccoli spazietti che ritagli nella tua vita e la forza che ci metti anche se non occupano la maggior parte del tuo tempo, sono le passioni che ti bruciano dentro, ed è ciò che mi fa andare avanti adesso che ancora non ho quello che voglio. Ho iniziato quel giorno  a volere anche io il mio nome stampato da qualche parte, chissà quando. Di Denise D’Angelilli. In parte ci sono riuscita.

Sapevo che mio padre aveva una macchina fotografica perché era la seconda cosa più importante della sua vita, dopo di me. Ogni giorno la tirava fuori dalla grande borsa che a me sembrava così professionale e la puliva minuziosamente con un pennellino dalle setole morbidissime e uno strano palloncino che sputava aria e faceva una pernacchietta. Aveva tre diversi obiettivi, un flash esterno, e quando la prendevo in mano era troppo ingombrante e pesante per le mie mani da bambina e dicevo “mi sta bene?” E lui mi rispondeva ” non ti deve stare bene, devi essere brava”, e poi diceva tutte parole che io non capivo. Io voglio solo fotografare, pensavo, cosa ci vorrà mai, punti una cosa, chiudi l’occhio sinistro, appoggi il destro nel buchino, pigi il pulsante, finito.
Quando mi hanno detto che alla maturità avevo preso 82 e che mi avrebbero spedita in America ho prima avuto un mezzo mancamento, poi mi sono drammaticamente resa conto di non avere una macchina fotografica. Potevo forse portarmi dietro quella di mio padre, una canon analogica che aveva più o meno la mia stessa età e che se fosse tornata indietro con un solo piccolissimo graffio avrebbe scatenato l’ira di mio padre, che per fortuna fino a quel momento non avevo mai testato? O  magari potevo attingere al mio scarsissimo fondo di commessa del weekend per prendere una reflex a rate e iniziare così a indebitarmi a 19 anni. Ho scelto la seconda strada. Quei 50 euro al mese sono stata la cosa più sudata della mia vita, ma eccola lì, bella e fiammante, la mia canon EOS 400 D. All’avanguardia ai tempi, relitto oggi, sei anni di vita, qualche ammaccatura, granelli di sabbia e neve sciolta dentro e sopra, ha visto l’America, la Turchia, l’Inghilterra, e ancora non mi abbandona. Mio padre prendeva in giro la mia poca dimestichezza col mezzo e mi diceva che avrei dovuto prendere delle lezioni, mi ha regalato una guida, ma poi non ha fatto in tempo a insegnarmi niente e io adesso faccio ancora le foto storte, sfocate, non le so modificare con photoshop, uso maggiormente l’automatico, ma fino a che piacciono a me e mi ricordano qualcosa di bello allora a me vanno bene lo stesso.
Poi sono arrivate le polaroid, le foto alle serate, gli smartphone, le selfie, e io che volevo fare la fotografa per stare dietro l’obiettivo e fotografare sempre e solo gli altri sono rimasta fregata. L’ho poggiata su uno scaffale e ho iniziato a imbrattare instagram con foto che per me sono artistiche ma in realtà sono solo il risultato dell’aumentare la brightness su camera bag. Adesso mi hanno chiesto di riprenderla in mano, di ricominciare a portarla sempre in borsa pure se poi a fine giornata ti fa male la spalla, a portarla di nuovo ai concerti e maledire poi quella scelta perché tanto le foto non le riesci a fare come vorresti e vorresti pogare ma non puoi, a ritrarre i miei amici a modo mio e me stessa sfocata come nella foto qui sopra perché ancora nemmeno io ho capito come mettermi a fuoco, in tutti i sensi, a ingannare le persone con un sorriso e un’espressione di gioia quando in realtà vorresti lanciare tutti i mobili dalla finestra.
Non sono una fotografa solo perché posto le mie foto su instagram, non sono una cantante perché canto e suono smile di Lily Allen nel silenzio della mia cameretta, non sono una scrittrice perché ho questo blog, non sono una di quelle che promuove il tutti-fanno-tutto perché a malapena so sopravvivere, ma sono una che in qualche modo ha qualcosa da dire e da far vedere, fosse anche solo perché vivo in una delle città più fighe del mondo.
Dunque da oggi, per tre mesi, vi beccherete le mie foto condivise OVUNQUE. Potrete dirmi che fanno schifo, che sono sovraesposte, decentrate, desaturate, tutte queste parole che leggo sempre in giro e che io cerco su google senza capire ma non è questo il punto, il punto è che un giorno mi hanno detto “senti Denai, visto che sei un dinosauro tecnologico anche se hai 25 anni e che ti spacci per nerd quando in realtà hai appena scoperto cosa sia wetranfer, pensiamo che tu sia la persona più adatta per far capire alle persone che questo Irista, se riesci a usarlo tu, è davvero semplicissimo e possono farcela tutti”. Così io, che perdo il 90% di quello che scrivo perché non so neanche usare word, mi sono messa a cercare di capire cosa fosse questo Irista e ho capito che se solo lo avessi avuto anni fa adesso non dovrei passare le ore a capire in quale diavolo dei tredici hard disc esterni che ho ho ficcato le foto del concerto di Brandon Flowers al circolo degli artisti.

Non si tratta di dirvi come si fotografa, si tratta di dirvi come si archivia.

Ma quindi scusa duedì, in finale ce stai a dì che stai a fa na marketta? Pensatela come vi pare, come dico sempre: you may say i’m a markettara, but i’m not the only one.

E poi se riesco a essere carina nelle selfie con la fotocamera frontale dell’iPhone, che è rinomatamente una del cose peggiori che l’uomo abbia creato, con una reflex posso davvero trovare marito.

Ho tre mesi di tempo per cercare di farvi in qualche modo capire cosa sia Irista, adesso scusate ma devo andare a farmi duecento selfie.



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