Incurante di una serie di doveri privati e pubblici, la ‘povna ieri si è data con determinazione alla macchia e – dopo aver esaurito le cinque ore di scuola che il giovedì sono di sua competenza – ha salutato tutti, lanciato un’occhiata significativa a Mafalda (che le ha sorriso di rimando, complice) e ha deciso di dedicarsi ostinatamente ai cazzi propri. Che, nella fattispecie, erano delle ore di lavoro al pomeriggio, con Calvin e Corto, con i quali si è trovata per ragionare, un poco e seriamente, sulla tesina per l’esame di stato. Barricati nella sala computer, schierati davanti ai tre monitor, la ‘povna e i suoi alunni prediletti si sono dedicati all’argomento con puntiglio. Ciascuno di loro seguiva, a suo modo, la sua traccia. La ‘povna nel mezzo si dedicava a portare a termine una serie di varie ed eventuali burocratiche. Ma, soprattutto, dialogava ora con l’uno e ora con l’altro. Rispondeva a domande, offriva conforto per dubbi e chiarimenti, discuteva di navi, sigilli, scarpine ed altre amenità del genere (e, certo, a volte anche di letteratura).
Sono passati così Ian McEwan, Robert Darnton, il Calvino della Città invisibili (ché, se non si fosse capito, Corto Maltese è infognato – a tal punto che ci è pure andato a studiare sul campo – in un lavoro su Berlino). Nel frattempo Calvin – che, tutto preso a fare il can pastore della classe, ha cominciato a occuparsi di se stesso con prevedibile ritardo – rifletteva sulla sua scommessa audace e intelligente: unire il suo talento progettuale alla sua capacità di costruire disegni di parole in una proposta follemente romantica, portando alla maturità il disegno di una vera casa-barca, sul modello di quella in cui vive, a Yarmouth, la famiglia Peggoty, in David Copperfield di Dickens.
E la ‘povna – che trova che in questa idea ci sia tutto lui, i suoi occhi, le spalle sottili, il suo sguardo precoce, e sognatore – è talmente commossa che decide di recargli, inconsapevole, un omaggio.
E, dunque, parla di questo romanzo al Venerdì del libro.
Ottava fatica di Dickens, David Copperfield viene pubblicato a puntate (come sempre) tra il 1849 e il 1850. Ed è la storia del suo giovane e omonimo protagonista (costruito, come è noto, con più di un tratto autobiografico) dalla nascita (“Vengo al mondo” – recita il I capitolo) fino alla piena assunzione di una consapevole (e adulta) maturità. La vicenda, costruita secondo le più classiche pieghe della Bildung, segue le avventure di David passo passo: dalle prime immagini felici di una infanzia inconsapevole finita troppo presto, ai dolori di un giovane orfano, fino alla ‘seconda nascita’ (che fa seguito all’adozione da parte della zia Betsey Trotwood) e alla progressiva ascesa di riscatto: prima studente modello, poi lavoratore, uomo di lettere, marito, amico fedele e sincero. Nel mezzo, la consueta galleria di ritratti tipica di Dickens: nomi parlanti, gesti che valgono un personaggio – un coro che accompagna il lettore fitto fitto, avviluppandolo, con la forza di peripezie e suspence, pagina dopo pagina, nei meandri avvolgenti della trama.
Perché – al di là della satira sociale (che presenta, qui e altrove, le conseguenze della rivoluzione industriale con incisivo realismo), della comicità di comprimari e situazioni descritte con l’abilità di un bozzettista, così come dei personaggi a tutto tondo che occupano il proscenio – l’abilità di Dickens è anche e soprattutto questa: tenere incollato il lettore alla vicenda, ancora e ancora, senza sosta – con in testa solo la voglia disperata di leggere – meravigliosamente ipnotizzato, di sua piena e buona voglia, dalla magia potente della parola “raccontare”.
La ‘povna – che lo conosce bene (così come quell’altro) – non si stupisce che un libro del genere possa avere catturato, prepotente, l’attento animo di Calvin. E, sì, certo, la canzone degli addii (loro lo sanno) si fa prossima. E arriverà il tempo di tessere, nostalgica, la tela dei ricordi.
Ma intanto, consapevoli, si godono tutti e tre il momento. Sospeso in un pomeriggio di luce spessa e cielo blu, tra scuola e mondo. A parlare una lingua segreta e privatissima che, con questi suoni, resta soltanto loro.