David Fenech è un polistrumentista, cantante, improvvisatore e software engineer parigino attivo da circa vent’anni, che si muove in maniera disinvolta fra ambiti musicali e mezzi espressivi assolutamente trasversali, vantando collaborazioni e lavori discografici con personaggi di punta nell’ambito della sperimentazione sonora e della forma canzone più storta e dadaista, quali Jad Fair, Tom Cora, Ghédalia Tazartès, Andrea Parkins, Ergo Phizmiz, Gino Robair, Felix Kubin, nonché con blasonati istituti di ricerca musicale e scientifica come l’IRCAM e l’INA/GRM di Parigi, e lo studio STEIM in Olanda.
Gran Huit è la ristampa in lp di un lavoro uscito originariamente in cd nel 2000 per l’etichetta Tout L’Univers, e solo adesso riportato alla luce grazie alla lungimiranza della Gagarin Records del genietto tedesco Felix Kubin. Fenech suona quasi tutti gli strumenti e registra il risultato su un glorioso quattro tracce.
Incasellare Grand Huit in un genere o filone definito non è cosa facile e, in fin dei conti, assolutamente non indicativa. Quello che viene fuori con maggiore chiarezza, anzi, è proprio la tendenza, consolidatasi giusto in quel periodo di “svolta angolare” rappresentato da primi anni Zero, alla citazione estemporanea e incontrollata di (non)generi e forme compositive appena accennate, il che dà vita a una sorta di blind cinema coadiuvato da surreali sketch vocali (“Confieso Que He Vivido”, “Jaune D’Oeuf En Cage”, “Boeuf Bourguiba”, “Opera En Toc”, “Solaris”) che fungono da perfetti intermezzi fra un brano e l’altro. Come appena accennato, dal punto di vista strettamente musicale si naviga a vista fra trip-hop in bassa fedeltà con drum-machine Casio in bella vista e voce strozzata che ricorda tanto Ian Svenonius (qualcuno ha memoria dei Make Up?) e il suo “gospel yeh yeh” (“Confieso Que He Vivido”), una divertita e divertente imitazione di Tom Waits con tanto di colpi di tosse che gradualmente lascia il posto a una mini-sinfonia per tastiere giocattolo, chitarre scordate e falsetto isterico (“Mister Master”), impro dadaista che gradualmente si trasforma in un numero vagamente Portishead (“Un Lacher De Lucioles”, “Jukebox”), orientalismi per gamelan giocattolo (“Jaune D’Oeuf En Cage”), un siparietto pop cantato in lingua madre che riporta alle gesta sommesse di un’altro grande outsider del periodo come Casiotone For The Painfully Alone e al catalogo della Tomlab (“Petit Soleil”), avant-hop svampito e narcolettico vagamente cLOUDDEAD (“Heeels”), dub-funk autistico da cameretta (“Coralingo”) e – giusto per non farsi mancare niente – a chiusura una bella prova chitarra e voce di folk oscuro/depresso/lo-fi fra Smog e Vic Chesnutt. L’accusa che forse si potrebbe muovere a Grand Huit è quella di apparire un tantino derivativo. Di contro, questo non sembra però intaccare minimamente il piacere che potrebbe regalare a ogni ascoltatore che si voglia avvicinare al buco della serratura e spiare in silenzio lo stralunato universo sonoro creato da David.
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