Amo il mio lavoro. Ai tempi dell'università mi sarei immaginato e voluto, certamente, diverso, più scanzonato e coraggioso, mi sarei augurato un percorso fatto di esperienze più milleriane, della formale e rispettosa gavetta di un giovane insegnante di Lettere, che silenzioso ma determinato ha ottenuto la sua prima cattedra a soli 33 anni. Ho abbandonato le mie aspirazioni wertheriane per una vita pacata.
Amo i miei alunni, non tutti allo stesso modo e con la stessa cieca devozione, ma volgio bene a quelle mani impazienti che sventolano sulle teste dei compagni, voglio bene a quelle domande che travalicano ogni restrittivo programma ministeriale e voglio bene a quei sorrisi, ancora corrotti dal sonno, che mi accolgono la prima ora di ogni lunedì mattina. Amo il mio lavoro e i miei alunni, e questi sono due fatti.
Non abbiamo figli, io e mia moglie. Ci provammo da giovani ed un paio di volte mia moglie rimase incinta, ma non superarono mai il terzo mese di gestazione. Non gliene feci una colpa, ovviamente.
Lei non volle mai provare alcun tipo di cura ormonale. Non perché il desiderio di un zompettante esserino in giro per casa la entusiasmasse solo fino ad un certo livello di sforzo, ma perché era così devastata nel suo intimo fallimento femminile che non avrebbe sopportato un ennesimo fallimento scientifico. Non la forzai mai. Non ne feci una tragedia. E non ne parlammo mai più. Ci abituammo alla compagnia dei nostri passi, dei nostri umori, dei nostri movimenti. Ed oggi è ancora così: complementare la presenza dell'uno per l'altra. Non ho figli, e questo è un fatto che se aggiunto agli altri tre, di fatti ne fanno quattro.
Ma ce ne sono così tanti a venirmi in mente oggi che ho scelto di morire. Ci sono i miei libri di Joyce, ci sono i miei cani, quel romanzo mai finito.
Oggi ho scelto di morire con lo stesso lucido raziocinio che mi spinse, a 17 anni, a scegliere di andare in vacanza in Spagna piuttosto che in Scozia.
Sono un uomo sereno, ed ho scelto di morire. Non "ma", semplicemente "e". Perché la morte non è una cosa brutta. Ma dura in eterno. E non ha nulla a che vedere con quelle sciocchezze da icona rock secondo cui la vita ha uno spazio d'azione così limitato da dover sopprimere tra le pareti di un'insoddisfacente esistenza, esiliando il proprio talento al gusto infinito dei posteri. Io non ho talenti e sono sufficientemente lucido da sapere che questo gesto farà soffrire mia moglie, i miei anziani genitori, anche i miei alunni, tuttavia ho scelto di morire oggi perché ho sempre desiderato morire quando avrei scelto di farlo. Senza drammi o prostrazioni religiose, senza vecchiaia o demenza, in salute e nel pieno dei miei anni. L'ho scelto tra più opzioni, candidamente. Ho scelto questa corda, spessa e ruvida che, diligente, abbraccerà il mio collo in uno slancio di erotico attaccamento. Ho scelto di legarla al parapetto delle scale che portano al piano di sopra, ho scelto che mi sarei seduto sul corrimano e che mi sarei lasciato cadere giù con il cappio al collo.
Ho deciso che la morte non mi avrebbe colto di sorpresa, che non mi avrebbe piegato alla rassegnazione di una malattia. Ho deciso che l'avrei battuta sul tempo.
Non vi è dato capire.
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