David Foster Wallace: a cosa serve la letteratura?

Creato il 27 maggio 2010 da Sulromanzo
Di Carlotta Susca
David Foster Wallace e il senso della scrittura
Gli infaticabili lettori probabilmente non sono in grado di esprimere chiaramente quale sia l’origine dell’impulso alla lettura, né perché ogni scritta o foglio stampato attragga così imperiosamente il loro – spesso miope ed occhialuto – sguardo. Al lettore, però, potrebbe essere anche consentito non chiederselo e continuare a gioire per l’accumulo di libri sui propri scaffali senza dover necessariamente spiegare perché non riuscirebbe a concepire la propria vita senza leggere.
Ma lo scrittore deve chiedersi quale scopo abbia ciò che scrive, perché il suo lavoro deve continuare a rendere la letteratura speciale (molti scrittori se lo chiedono e sanno perfettamente la risposta: “scrivere serve per fare soldi”. Di questi figuri non ci curiamo).
La risposta di David Foster Wallace mi sembra condivisibile. Lo scrittore statunitense morto suicida nel 2008, autore del meraviglioso Infinite jest, e di numerosi altri libri (tutti fortemente consigliati), ha detto: “La letteratura e la poesia riescono a farmi sentire umano, a eliminare quel senso di solitudine, a mettermi profondamente e significativamente in comunicazione con un’altra coscienza”. Se si trattasse solo di questo, però, potrebbe anche sembrare che Wallace abbia confezionato un aforisma prêt a porter per amanti della letteratura, mentre magari continuava a pensare che in realtà “scrivere serve per fare soldi”. Le sue opere, invece, rendono davvero un servizio alla letteratura; lo scrittore, profondamente convinto dell’importanza della parola scritta, ha infatti scritto rifiutando il facile (da produrre, impossibile da leggersi) citazionismo postmoderno senza significato.
Nel saggio E unibus pluram, gli scrittori americani e la televisione, Wallace esamina quanto deleterio sia per la letteratura continuare ad utilizzare l’ironia per contrastare la cultura pop, dato che questa ha subito recepito l’atteggiamento postmoderno ed ha saputo utilizzare più e meglio della letteratura la potenza distruttiva dell’ironia. Sembra non essere più possibile, al giorno d’oggi, dire qualcosa veramente, perché le virgolette nel linguaggio scritto ed in quello orale consentono di suggerire di non prendere sul serio quello che si sta dicendo. Lo osservava anche Eco: grazie al postmodernismo non si può più dire “ti amo disperatamente” perché si rischia di sembrare sciocchi; meglio dire “come direbbe Liala, ti amo disperatamente”. Di citazione in citazione, ci scrolliamo di dosso la responsabilità di quello che diciamo, e non siamo più in grado di comunicare. Così la letteratura preferisce impegnare il lettore nella ricerca della citazione nascosta piuttosto che veicolare dei significati.
Rifiutando il postmodernismo, Wallace opta per un nuovo Realismo, in grado di “prendere posizione” nei confronti della realtà. In che modo? Considerando che “il compito di ogni forma di letteratura «realistica» è l’opposto di quello che era un tempo: non più rendere familiare ciò che è strano, ma rendere di nuovo strano ciò che è familiare”.
Se la televisione ha reso inutile la ricerca dell’esotico nella carta stampata, perché ci mostra immagini da ogni luogo del mondo senza alcuno sforzo (cerebrale), allora la letteratura non deve più portarci in luoghi a noi lontani ma deve mostrarci quanto strano sia ciò in cui siamo immersi, perché troppo spesso siamo simili ai due pesci di cui racconta Wallace, che si guardano stupiti chiedendosi: “Cosa diavolo è l’acqua?”

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