“Le frasi dette e lasciate intendere dal mio superiore, ufficiale della Marina Militare, durante una missione di pace, nel 2002, fuori dal Mediterraneo, non erano ordini, ma avevano un chiaro significato e una pressione che incombeva su di noi, mentre constatavamo che l’olio dei motori della nave e di altri impianti sgocciolava e continuava a scivolare giù, nella parte più bassa dei locali”.
“Ce ne libereremo nottetempo”. E anche “Dovremo risolvere il problema quanto prima” erano, in realtà, indicazioni chiare.
David Grassi, classe ’72, 30 anni all’epoca, tenente di vascello, nativo di Oristano, residente a Livorno, e altri suoi colleghi, comprendevano il significato sotteso a quelle frasi, commenti e atteggiamenti. Significavano una sola cosa: rovesciare in mare una quantità di scarichi inquinanti in maniera furtiva. Non arrivarono a quell’appuntamento, a quell’ordine implicito, impreparati. Quel momento non era lontano, lo sapevano e avevano fotografato la stiva, l’olio accumulato, l’impianto di depurazione che non funzionava e, quindi, non poteva filtrare quegli olii che si accumulavano in fondo alla stiva. Sapevano anche che qualunque cosa fosse successa, compresa la scelta di effettuare una sosta in sosta, avrebbero avuto dei risvolti personali per questa loro “intransigenza”. Era una situazione difficile, ma il giovane ufficiale David Grassi, con i suoi colleghi, non esitarono: dissero no, dissero che quell’olio non sarebbe finito in mare, loro non l’avrebbero fatto e non avrebbero permesso che nemmeno qualcun altro lo facesse, proprio perché avevano documentato tutto con delle foto e i liquidi inquinanti accumulati non potevano più essere ignorati.
L’olio non fu sversato in mare, ma, da quel momento la vita dell’ufficiale Grassi cambiò. Era stato messo davanti a un bivio e aveva scelto il sentiero che più andava in salita. Fu punito, insieme ai colleghi, con 15 giorni di rigore per non aver obbedito a un ordine. Ma la punizione non finì lì. Quel gesto, compiuto secondo coscienza, ma anche nello spirito della legge, gli costò la carriera e molto di più.
La storia di David Grassi è bellissima e durissima allo stesso tempo. Toglietevi di mente le soap a lieto fine, Davide contro Golia, la giustizia che trionfa. C’è anche questo, in effetti, c’è poesia, amore, coscienza, filosofia e rispetto. Da quando questa storia è cominciata, però, ad oggi, in cui David dice che non è davvero finita, sono passati 12 anni, anni di vita segnati da questa vicenda. Quindi non aspettatevi una storia di vincitori e vinti: in questo storia c’è un uomo, c’è il mare, c’è la legge e chi decide di interpretarla in maniera formale o sostanziale. C’è l’istituzione, a volte accogliente a volte matrigna. E’ una storia che parla di coscienza e di destino (interiore). E anche di cieli stellati.
Allora torniamo al 2002 e a quello che successe dopo. Le note caratteristiche dell’ufficiale David Grassi, quelle in cui i superiori annotano il modo cui il sottoposto porta a termine i suoi compiti e la sua attitudine caratteriale, peggiorarono. Se prima era stato giudicato “franco e sincero, di provata lealtà e rettitudine”, dopo quell’episodio fu valutato “ambiguo, poco leale, accomodante”. Il suo carattere, da “rispettoso, amichevole, comprensivo” passò ad “ambiguo, presuntuoso, altezzoso”. È andata avanti così, per 12 anni.
La giustizia, intanto, cominciava il suo percorso lento e fangoso: l’ufficiale, infatti, aveva presentato ricorso al Tar per far ritenere nulla la punizione e per annullare la documentazione che demoliva la sua personalità. Nel frattempo David Grassi, restava sì con la coscienza a posto, ma con le prospettive di carriera rovinate (niente soddisfazioni. e danni economici in prospettiva, e soprattutto, con il deserto intorno.
“È venuta fuori la mia fragilità, in questi anni – racconta e suona strano, in un primo momento, sentir pronunciare quella parola a un militare che, ancora molto giovane, ha trovato il coraggio di dire di no -. Mi sono sentito isolato, sia sul lavoro, sia in famiglia, perché gli effetti della mia scelta ricadevano intorno a me. Nessuno mi ha sostenuto e io ho finito per vestire l’abito che ormai mi avevano cucito addosso. Mi dicevano “Tu che da parte stai?’ E io rispondevo che stavo dalla parte della legge. E questo costituiva un fardello”.
Non solo: nello stesso tempo si allontanavano anche le opportunità a cui teneva di più, prima di tutto la possibilità di insegnare all’Accademia e di vivere e lavorare nella stessa città. Ogni volta che quel traguardo sembrava raggiunto, mani invisibili lo spostavano più avanti.
Anche il procedimento giudiziario andava avanti con alti e bassi: “Nel 2006 sembrava fosse decaduto, perché ero stato promosso, ma io riaprii la causa perché ero retrocesso in graduatoria”. Al contrario, i suoi colleghi “disobbedienti”, che vennero puniti, non fecero ricorso. Ed ebbero meno problemi. L’ufficiale Grassi voleva, invece, un riconoscimento dal Ministero.
La decisione del Tar è arrivata a dicembre 2013 e la sentenza è stata depositata poche settimane dopo: il Tar ha stabilito che quella punizione (consegna di rigore) fu ingiusta e l’ha annullata, come ha annullato le note redatte che lo dipingevano come una testa calda, una persona poco affidabile e sleale. Parole che, in questi anni, l’hanno caricato di amarezza, “anche se l’amore per la Marina rimane intatto”, tiene subito a precisare.
È stato un giornalista a comunicargli la sentenza che lo riabilita, ma quel giorno non ha provato sollievo. Più probabilmente gli sono crollate tutte le schegge di sofferenza da cui a fatica aveva cercato di difendersi in attesa di capire se ci fosse stato un riconoscimento della correttezza del suo gesto.
“Non c’è ancora sollievo – dice Grassi – è solo la prima sentenza, la Marina può fare altri passi, ci possono essere ancora cambiamenti”. Sembra non volersi fidare onon voler cedere alla tentazione che davvero sia un capitolo chiuso.
In realtà potrebbero esserci anche cambiamenti in positivo. La Marina nel frattempo ha attuato iniziative per attrezzare meglio le navi con compattatori per non disperdere i rifiuti che si producono a bordo, completare le bonifiche nel caso di presenza di amianto; adottare, come si dice oggi, buone prassi a tutela dell’ambiente.
Per ora, però, nei confronti di Grassi che, nel frattempo, in seguito a un incidente stradale, è transitato nell’impiego civile, l’istituzione ha scelto la strada del silenzio.
E i superiori che l’hanno punito che fine hanno fatto?
“Non lo so e non ho grande curiosità. Io non ho fatto ricorso contro di loro, ma contro il Ministero. Volevo che il Ministero riconoscesse la correttezza del mio lavoro e del mio gesto. Oppure che mi si dicesse che avevo fatto la cosa sbagliata e che ero davvero una persona sbagliata. Volevo la risposta compiuta alla mia domanda e il coraggio di dare attenzione alla vicenda senza seppellirla. Se chi è stato coinvolto direttamente dovesse ritenere di avermi qualcosa da dire, forse mi chiamerà. O forse potrà farlo qualcun altro prendendo a cuore la persona che sono stato e che sono. Se la Marina, le persone che ne fanno parte, desiderano onorare la verità anche quando può essere scomoda e decidere di recuperare davvero il soldato lasciato dietro le linee, allora qualcuno mi chiamerà: io tutto quello che avevo da dire l’ho detto nel 2002 a chi era sul posto e quello che era ritenuto utile per il caso è contenuto nelle deposizioni al Tar presentate dal mio avvocato Roberto Giromini, l’unico che decise di intentare la causa quando gli altri avvocati mi avevano scoraggiato ritenendo di mettersi contro Golia. Se i vertici della Marina decideranno di intraprendere delle azioni nei confronti dei miei superiori di allora, non sono tenuti a darmene conoscenza. Sappiamo anche che la Marina ha altri problemi che interessano il proprio personale e non desidero in questo momento che si disperdano energie e si distolga l’attenzione. (Grassi fa riferimento alla vicenda dei due Marò prigionieri in India ndr). Ma forse arriverà il momento per dare rilevanza anche al tenente David”.
Suo figlio può essere orgoglioso di lei.
“A mio figlio non avevo detto niente, il fatto è successo che non era ancora nato. Gliel’hanno detto altre persone, che l’avevano letto sul giornale, certo è stato contento. Ma..”
Ma?
“A volte penso che questo fatto possa essere per lui una eredità troppo pesante. Io ho sofferto molto, ho passato anni di solitudine e questa storia ha inciso anche sulla mia vita familiare. Anche ora sto vivendo un momento estremamente difficile. Agire secondo coscienza, spesso, è un comportamento troppo oneroso. Si paga troppo. Non vorrei che mio figlio si trovasse davanti a scelte del genere. Quando vogliamo bene a qualcuno non gli auguriamo certo una vita piena di ostacoli per poi trovare la forza di superarli. Gli auguriamo di avere una vita felice, di riuscire a realizzare i propri talenti, anche nonostante le avversità, ma possibilmente in un clima favorevole. Non auguro a nessuno che si possa soffrire per delle scelte di coscienza”.
Lo so che è una domanda banale, ma quindi non lo rifarebbe?
“Lo rifarei, perché sono fatto così, ma le persone non dovrebbero trovarsi davanti a queste situazioni. Ero giovane ed ero davanti ad una scelta che non mi dava alternative. O dicevo ‘sì’ o dicevo ‘no’. Ho fatto la scelta giusta? Posso dire di aver agito secondo coscienza. Ma, forse, quando ci troviamo di fronte ad una scelta dovremmo inserire tra gli elementi di valutazione anche il rispetto della nostra dignità e la tutela della nostra integrità. Dovremmo mantenere il rispetto per noi un po’ come la pubblicità che ricorda che “… io valgo”. Quello che ho fatto ritengo tuttora sia giusto. Ma pensi, ad esempio, ogni giorno quanti inquinanti sversa la Cina nell’aria, nell’acqua. I paesi in via di sviluppo oggi hanno a cuore priorità che riguardano la vita immediata dei loro cittadini, rinviando al futuro altre problematiche, anche quando le stesse siano riconosciute nella loro potenziale gravità. In fondo, se avessi detto di sì, non avrei certo provocato un disastro enorme. Anzi, ritengo che avrei sofferto meno, avrei perso meno. Ma siamo al ragionamento del “se” con il quale si rischia solo di procurarsi altro dolore.
Ritengo sia importante tutelare il personale di cui si dispone e privilegiare sempre l’atteggiamento utile allo sviluppo della persona e mai quello che passa per la mortificazione e per il tentativo di scaricare sui dipendenti le proprie carenze o quelle del sistema. Dunque avrei desiderato questo tipo di atteggiamento nei miei confronti”.
A questo punto dell’intervista succede che rimango io senza parole: voglio cercare una domanda, dire qualcosa di intelligente, consolarlo oppure semplicemente andare avanti a chiedere. Invece le sue di parole sono riuscite a trovare quello spazio che si trova sempre tra i margini delle nostre convinzioni, quella fessura che mina il muro di spiegazioni che ci siamo dati per giustificare le scelte che ci costano fatica, che abbiamo fatto per principio, per orgoglio. Mi sento destabilizzata, dove sono finite le convinzioni delle mie di scelte?
Dopo l’apnea mi attacco alla domanda più facile: “Beh, ma se non l’avesse fatto, come si sarebbe sentito?”
Ma non funziona, perché a David Grassi il gioco dei “se” e dei “ma” non piace e precisa quanto ha già detto…
“Ho smesso di fare questi ragionamenti sull’assurdo perché mi procurano dolore e non ho trovato per essi validità pratica”
Ma, alla fine, è difficile essere diversi da quello che siamo. I greci lo chiamavano “Daimon”. Il demone che è dentro di noi.. (Sento che va meglio, la prima a sentirsi meno peggio, mi sembra, sono io)
“Sì, il daimon. È vero, il nostro destino interiore. È difficile sfuggirgli. O, come diceva Kant, la coscienza che è in noi, il cielo stellato sopra di noi. Guarda caso Daimonos è il nome del mio corso. Ce lo siamo dati perché suonava fiero (e così sentivamo) e lo abbiamo giustificato per il significato morale originale che gli diede Socrate”.
E poi ci sono le domande che il Piccolo principe fa all’aviatore. Bisogna dargli le risposte vere, non giri di parole vuote.
(Non è una conclusione, è l’inizio, anzi, di una riflessione. Anche se, almeno, ora, mi (ci?) sento (sentiamo?) meno persa/i.)
Così saluto David Grassi: lui deve andare ad allenare dei ragazzi, io a pensare a quello che mi ha detto e che non può lasciarci indifferenti.
E lo ringrazio.
Per quello che ha fatto.
Per come è.
Perché l’ha condiviso (anche) con me.
Perché quando sono tornata a casa ho avuto una storia vera da raccontare ai miei ragazzi.
Vanna Ugolini blogger