di Patrizia Poli
Livorno Magazine, rivista on line alla quale collaboro fin dalla sua nascita, nella persona di Fabio Marcaccini, collega e amico, mi ha chiesto di parlare della mia scrittura.
Premetto che non mi sono mai definita una scrittrice e sfido chiunque mi conosca, in rete o nella vita, ad affermare il contrario. Premetto che non sono Umberto Eco e che non lo sarò mai. Premetto che non ho alle spalle un editore né grande, né medio, né piccolo, né a pagamento, né gratuito. Sono solo una delle tante persone che si autopubblicano su una piattaforma come ilmiolibro.it. E, quindi, quel gentile signore che qualche tempo fa, durante una discussione su Facebook, disse: “La Poli ha pubblicato su il miolibro.it, ma de che stiamo a parlà?” in un certo senso aveva ragione. Infatti, de che stiamo a parlà? Non ho intenzione di elargire magnanimi consigli per giovani scrittori, né tenere un corso di scrittura creativa, né tantomeno– come mi ha chiesto Fabio – buttar giù “un decalogo su come si dà vita a un romanzo”.
Prendendo spunto però dalla bella intervista che mi ha cortesemente rilasciato Marco De Franchi – lui sì scrittore a tutti gli effetti, con solidi editori alle spalle – vorrei provare anch’io, come lui, a parlare della mia narrativa, di come nasce e si sviluppa.
Comincerò col dirvi che non sono di quelle che alle elementari già scrivevano romanzi, da bambina mi sarebbe piaciuto diventare archeologa, avvocato o anche cassiera della Upim. L’unica aspirazione alla quale mi sono avvicinata è quella della cassiera, avendo gestito per tanti anni un negozio di mia proprietà, ora, finalmente e senza alcun rimpianto, defunto. A dire il vero, “aspirare” è ciò che mi riesce meglio e, se vado avanti di questo passo, penso che continuerò fino al momento in cui mi sarà lecito aspirare a una gloria postuma.
Da quando ho imparato a leggere, l’ho fatto in modo feroce, disparato e disperato. Nei miei pomeriggi solitari di bambina, giravo per casa alla ricerca di qualcosa da scorrere con gli occhi, che fosse I ragazzi di via Paal di Molnar, La Montagna incantata di Mann, Topolino, oppure la Divina Commedia spiegata ai ragazzi, l’importante era evadere, sognare, non sentire la completa solitudine che mi avvolgeva.
Fin da piccola riuscivo ad avvertire la differenza degli stili e li copiavo nei miei temi. Uno dei miei preferiti era quello dell’Anguissola in Violetta la Timida. Le basi del mio italiano, della mia fantasia, della mia curiosità, sono da ricercare – come per tutti coloro nati negli anni sessanta – nella magia de Le fiabe sonore e nella sapienza de I quindici. Ricordo che scrissi una novella. La trama parlava di un bambino che pianta un albero di ulivo e muore sotto lo stesso albero da vecchio, il giorno in cui, finalmente, riesce a raccogliere le prime olive. (Le mie storie non sono mai state allegre. Io non sono mai stata allegra.)
Al liceo, il professor Aldo Baldini (che ancora ringrazio per avermi trasmesso l’amore per la letteratura) un giorno ci affidò come compito quello di scrivere un racconto e, leggendo la mia pietosa storiella su due ragazzi che scappano di casa e poi si pentono, annunciò che “la narrativa non era il mio genere”.
I primi veri tentativi di scrittura risalgono agli anni dell’università. Il mio ex marito mi fece notare che stavo iniziando troppo tardi per essere una vera scrittrice, e mia madre sentenziò che le mie storie erano delle bieche imitazioni di stili altrui e nel contempo molto personalmente “affossanti”. (Forse mia madre ha davvero colto l’essenza della mia narrativa.)
Poi sono venuti i racconti - Quand’ero scemo ha vinto il premio Guerrazzi nel lontanissimo 1990 - e i romanzi, dal primo polpettone esotico-romantico ambientato in Africa, a Il volo del serpedrago, a Il Respiro del Fiume, prima vera narrativa corale e di ampio respiro, a Signora dei Filtri, considerato il mio lavoro più riuscito, fino all’evoluzione stilistica di Bianca come la Neve e alla complessità dell’ultimo lavoro, L’uomo del sorriso ancora inedito.
Le mie storie non rientrano in un genere fisso, ma, come ha fatto notare Paolo Mantioni
“Quella della Poli è una narrazione di passioni forti, di molte morti e di molte nascite, di pulsioni irresistibili che travolgono e sconvolgono, una narrazione che chiama a testimoni gli elementi primordiali - l’acqua, il sole, l’aria, la terra - è, ripeto, una narrazione violentemente dialettica che vorrebbe trovare pace in un Dio “forte e buono” , un Dio giusto, pietoso e, soprattutto, accogliente; appunto un Dio, non un uomo (o una donna). La scrittura mostra un anelito alla religiosità, alla trascendenza, è una scrittura a-storica (con quanto di buono e di meno buono, questo comporta)”(Paolo Mantioni)
In effetti la mia narrativa contempla pulsioni forti, universali, che accomunano gli uomini di tutti i tempi, la nascita, la morte, il sesso, l’amore, la passione, la paura, il bisogno di riscatto. Oscilla fra romanticismo e decadentismo, senza scadere nel sensazionalismo ma senza paura di mostrare il sublime e il repellente, l’alto e il basso. È frutto delle mie due anime, quella plebea e quella più intellettuale, quella etica e quella più cupa.
Ciò che mi crea difficoltà è inventare trame. Di solito – e forse questo è il mio difetto più grande – non ho una storia da raccontare, la storia si forma col tempo, a volte con gli anni.
Confesso che, se devo riscrivere un episodio già noto, come quelli di Medea o di Gesù, tiro un sospiro di sollievo, perché non sto lì a scervellarmi per capire cosa succederà nella pagina successiva. Allora posso abbandonarmi al lavoro più divertente e gratificante che è la costruzione delle singole scene e dei personaggi.
Parto sempre da un nucleo, dato, di solito, da un’ambientazione e un’atmosfera. La mia, come fa ancora notare Mantioni, è una scrittura ambientata nell’altrove, solo i racconti si basano sul qui e ora, ma sono brevi, fulminei. I romanzi nascono da viaggi, da letture, da ricerche minuziose che mi fanno scoprire mondi alternativi, posti lontani nel tempo e nello spazio, non riconducibili alla mia vita di tutti i giorni, troppo squallida per essere riprodotta. Se scrivo è per vivere un’altra esistenza, sognare un altro sogno. Ogni romanzo è come un esame dell’università: all’inizio sai poco della materia che t’interessa e di cui vuoi parlare, alla fine avrai studiato, imparato, esplorato. L’arricchimento che ne deriva è il più importante e duraturo dei risultati.
Amo creare personaggi a tutto tondo, con un passato, un presente in divenire e un probabile futuro. Voglio arrivare a conoscerli, sentirli muovere e parlare, affezionarmi a loro, scoprirne le idiosincrasie, i pregi, le manie, le cattiverie. Mi piace capire come interagiscono fra loro, studiare le loro reazioni agli eventi che li travolgono, osservare come si evolvono e cambiano. Li lascio muovere e, spesso, fanno quello che vogliono, non quello che io avevo pensato per loro. Più che essere un demiurgo, sento di fare opera di maieutica, estraendo dalla materia grezza persone vive, calandole dall’iperuranio dove già esistono. E li amo talmente! Vorrei che prendessero vita nella mente di tanti lettori e restassero nei loro cuori. Non mi attirano i best seller che durano una stagione, neanche quelli intelligenti e raffinati, preferisco i romanzi capaci di creare archetipi immortali che rimangono per sempre nell’immaginario collettivo.
Prediligo i caratteri forti, potenti, tormentati, pieni di coraggio, ma anche di cattiveria e oscurità. Avevo cinque anni, mia madre mi portò al cinema e rimasi tramortita da due personalità che non ho mai dimenticato: Rossella O’Hara di Via col Vento e La Regina Nefertari ne I Dieci Comandamenti.
In ogni personaggio c’è un po’ di me ma nessuno è completamente me, non amo l’autobiografismo che considero pesante, un gravame di cui tanti stentano a liberarsi. Anzi, quando provo a scrivere la mia storia o quella della mia famiglia (che ho in progetto) mi blocco.
Non faccio scalette e si sente, a volte temo di procedere per accumulo e non per sviluppo. Mi consolo pensando che i romanzi più grandi, quelli che non tramonteranno mai, come Il signore degli anelli o Via col vento sono stati scritti a braccio, senza sapere dove andare a parare.
Anche quando racconto una storia conosciuta, come il viaggio degli Argonauti o la crocifissione di Gesù, soffro finché non ho trovato un taglio particolare, un’ottica solo mia per la quale valga la pena ri-raccontare quella storia. Di solito, a quel punto, scopro l’importanza di certi particolari, all’inizio introdotti per caso. Così come Tolkien scoprì l’importanza dell’anello che, da oggetto magico qualsiasi, si trasformò nell’Unico Anello del potere dando senso, sviluppo e morale, a tutta la trilogia.
Ci tengo, inoltre, a che tutte le mie storie, anzi, tutte le mie scene, siano avvincenti. Chi alza il sopracciglio di fronte alle narrazioni appassionanti, ai libri che ti fanno voltare pagina e desiderare di sapere cosa succede di là, non ha capito che la noia non è mai un valore. Se un libro mi tedia, può essere anche ben scritto, colto e cerebrale, ha già perso tanti punti con me.
Per me scrivere è riscrivere. E rileggere, all’infinito. E non basta mai, credetemi. Rileggendo a distanza di mesi, vengono sempre fuori magagne: ripetizioni, assonanze, errori, proposizioni relative incatenate una dietro l’altra.
Per dare un’apparenza di scorrevolezza, di semplicità, e al contempo, di eleganza, faccio una fatica tremenda e un lavoro certosino. Sono capace di bloccarmi anche un quarto d’ora su una singola parola. Magari è proprio quella giusta ma, ahimè, fa rima con quella di sopra altrettanto significativa. Allora devo decidere quale delle due sacrificare o cambiare.
Detesto le ripetizioni, le assonanze cacofoniche e le allitterazioni. Se un periodo è pieno di sibilanti o di dentali o ha troppe zeta, mi sfinisco per eliminare, per limare. Penso sempre che sia meglio togliere qualcosa che non aggiungere. A questo proposito, mi vengono in mente le parole di Oriana Fallaci sulla difficoltà, fatica e solitudine della scrittura. Poi, però, arriva quel momento che senti il ritmo, che la frase suona come dovrebbe, che tutto va al suo posto, allora sei felice, sai di aver raggiunto lo scopo e quella frase, di solito, è data una volta e per tutte resterà così anche a distanza di anni.
Non credo a chi sforna un romanzo all’anno. Uno scrittore bravo di solito, nella sua vita, non produce più di quattro o cinque libri degni di questo nome.
Scrivere non è pavoneggiarsi alle presentazioni o in rete, scrivere non è firmare le copie, scrivere non è rilasciare interviste. Scrivere non è uno studio con vista mare mentre la colf ti fa le faccende. Scrivere è svegliarsi la notte e pensare a una scena. Scrivere è appuntarsi le parole mentre passi l’aspirapolvere. Scrivere è lo sguardo stufo di tuo marito mentre gli dici che anche oggi preferisci non uscire, scrivere è avere sempre la testa fra le nuvole, scrivere è l’orrore del foglio bianco, della storia che non prende corpo, della parola che suona male, della ripetizione che non hai sentito.