Il De Monarchia (pronuncia Monàrchia) è un trattato in latino di Dante Alighieri. Con questo testo il poeta volle intervenire in uno dei temi più “caldi” della sua epoca: il rapporto tra l’autorità laica (rappresentata dall’imperatore) e l’autorità religiosa (rappresentata dal papa). Ormai è noto quale fosse il punto di vista di Dante su questo problema, poiché durante la sua attività politica egli aveva lottato per difendere l’autonomia del Comune fiorentino dalle pretese temporali di papa Bonifacio VIII. Secondo la cronologia più accreditata, il De Monarchia fu composto negli anni 1312-13, cioè al tempo della discesa di Enrico VII di Lussemburgo in Italia; secondo altri, bisognerebbe anticipare almeno al 1308 la data di composizione; altri ancora, infine, posticipano la composizione del trattato al 1318, pochi anni prima della morte dell’autore (1321). L’opera si articola in tre libri, ma il più importante è sicuramente il terzo, quello in cui Dante affronta più espressamente il tema dei rapporti tra il papa e l'imperatore. Dante, anzitutto, condanna la concezione ierocratica del potere elaborata dalla Chiesa romana e solennemente ribadita attraverso la bolla Unam Sanctam del 1302. La concezione teocratica assegnava la pienezza dei poteri al papa, la cui autorità era superiore anche a quella dell'imperatore: questo significava che il papa era legittimato ad intervenire anche negli affari che di norma competevano all’autorità laica. A questa concezione teocratica Dante oppone l’idea che l’uomo persegue essenzialmente due fini: la felicità della vita terrena e quella della vita eterna. Mentre al papa spetta la conduzione degli uomini alla vita eterna (in cui Dante riconosce comunque il fine più alto), all’imperatore spetta, invece, il compito di guidarli alla felicità terrena. Ne deriva perciò l'autonomia della sfera temporale, di competenza dell'imperatore, rispetto alla sfera spirituale, di competenza del papa. L’autorità del pontefice non deve influenzare quella dell'imperatore nello svolgimento suoi compiti. Ragionamento: Dante vuole dimostrare che l’autorità dell’Impero dipende immediatamente da Dio. Infatti se non dipende dal vicario di Dio, cioè il Pontefice, allora dipenderà direttamente da colui da cui dipendeva l’autorità del Pontefice, cioè Dio stesso. Per intendere questo bisogna pensare che l’uomo è l’unico tra gli esseri ad occupare una posizione intermedia tra corruttibilità e incorruttibilità. Se si considera l’uomo soltanto per le due parti che lo compongono, cioè l’anima e il corpo, egli è corruttibile, mentre solo per l’anima egli è incorruttibile. L’uomo allora ha la funzione di unire la corruttibilità con la incorruttibilità.
Dante nacque a Firenze nel 1265, si sa (con la lettura delle sue opere) che è nato sotto il segno dei gemelli. il suo vero nome di battesimo era Durante, egli apparteneva all'importante famiglia degli Alighieri a Firenze. La madre morì durante la sua fanciulla età. il padre, esattore, accordò con Manetto Donati, padre di Gemma Donati, il matrimonio dei propri figli. Da questo matrimonio nacquero i figli Jacopo, Pietro, Antonio e Giovanni, quest'ultimo però molti pensano non sia figlio suo. Le opere principali di Dante sono le "Rime", tra questi brani Dante scelse quelli che avrebbero fatto parte della "Vita Nova", quest'ultima racconta della vita spirituale e l'evoluzione poetica di Dante, e interpreta anche l'amore provato per Beatrice. Inoltre c'è il "Convivio", in cui emerge l'interessamento per la filosofia di Aristotele, e il "De Vulgari Eloquentia" che scrisse durante i primi anni del suo esilio. Importante è anche l'opera "De Monarchia". Il capolavoro del poeta come tutti sappiamo è La Divina Commedia, essa si divide in 3 libri: l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso.
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