La realtà, come forse si avverte per istinto, è molto diversa: Chrysler – Fiat è il più indebitato dei gruppi automobilistici tanto che Marchionne l’ha spuntata su Veba (il fondo pensionistico dei lavoratori) che chiedeva 5 miliardi per il suo 41% di azioni, proprio facendo pubblicare i bilanci del gruppo ed evidenziando le piaghe debitorie: solo così è riuscito a strappare uno sconto e a pagare solo 4,35 miliardi di dollari in totale. Quindi soldi pochissimi, anzi meno di prima dopo questo esborso e i pochi disponibili solo per prodotti di nicchia o per modelli “chimera” di scarso appeal come è già accaduto con la Lancia, pensati con il bricolage di pezzi, scocche e motori di due gruppi che più diversi non si può. La stessa filosofia è oggi in agguato per l’Alfa, costretta a dover reggere il peso della fusione con una delle marche automobilistiche meno innovative, con il record negativo della qualità, almeno secondo i consumatori americani, in crisi perenne da quasi 40 anni, da sempre alla ricerca di un partner europeo per evitare l’assimilazione a General Motors o a Ford, già capace di dissestare le finanze della Peugeot e della Mercedes che incautamente avevano in animo una fusione. E del resto niente è più stupido del giubilo che s’innalza di fronte all’operazione finale dicendo che ora Fiat Chrysler è il settimo costruttore al mondo: la fusione di due grandi gruppi che insieme sono solo al 7° posto è già una prova di grande debolezza anche perché l’anno scorso erano al sesto.
Inoltre è chiaro che ora il quartier generale Fiat passa in Usa, come del resto ha già fatto sapere Marchionne, con tutte le conseguenze del caso: da un ruolo di progettazione e di produzione l’Italia diventerà man mano un’ area di assemblaggio con una occupazione residuale. La cosa singolare e deprimente è che tutta l’informazione, pur riconoscendo qui e là qualche rischio Paese nella fasi conclusive di questa operazione, si esalta dicendo che la Fiat diventa ora un costruttore globale. In realtà è invece Chrysler che lo diventa da gruppo – a parte il marchio Jeep – confinato sostanzialmente in Usa e per il 70%’ negli stati del middle west. Era la Fiat ad avere ad avere produzioni in Sudamerica, in Turchia e joint venture in Russia e sia pure tardivamente in India e in Cina. Era il gruppo torinese ad avere un respiro mondiale, sia pure stento e affannoso, che oggi porta in dote alla mediocre azienda americana per fare gli interessi degli Agnelli e succedanei, i quali da anni sognavano la fuga dall’Italia, dopo averla spremuta come un limone.
Certo il recupero del mercato dell’auto Usa dovuto soprattutto alla rinascita dei prestiti alla cieca (con il pericolo di una nuova bolla in preparazione) offre momentaneamente delle chance alla Chrysler – Fiat che ha aumentato le proprie vendite più di Ford e General Motors (ma molto meno di Toyota e Honda) tuttavia evidenzia dei problemi enormi: i modelli più venduti oltre oceano sono i pick up o comunque auto difficilmente traducibili in Europa e qui la Chrysler è piazzata con il suo Ram che realizza la maggior parte delle vendite del gruppo e la gran parte degli tili, mentre il mercato delle berline è in mano ai giapponesi e la prima Chrysler appare intorno al ventiduesimo posto. La stessa Jeep ha perso terreno. Insomma la crescita è qualitativamente gracile e incerta, molto più di quanto non sembrino dire i numeri globali ed esposta a molti rischi. Tanto più che le risorse per gli investimenti in altre aree sono stati sacrificati per la fusione e ora Fiat arretra non soltanto in Europa, ma anche in Brasile. Questo è il risultato di una gestione familistica del gruppo torinese che dopo aver evitato fusioni e alleanze per decenni nel timore che qualcuno mettesse becco nella real casa Agnelli, ha colto la prima occasione purchessia che permettesse di usare soldi altrui (quelli di Obama nel caso specifico) senza curarsi di comprendere se la fusione avesse un senso, ma badando solo agli interessi dei rampolli e non certo dell’Italia e dei soldini degli italiani che hanno permesso a questi signori di sopravvivere.
Ciò che fa bene alla Fiat fa bene all’Italia si diceva un tempo. Adesso è esattamente il contrario: di uguale rimane solo il servo ossequio.