di Riccardo Viganò
“Pizzica grecanica” – (ph. A. Sabato in “La Puglia in mostra” – Capone Editore, 2005)
Secondo la medicina moderna, il tarantismo o tarantolismo è una patologia a carattere isterico-convulsivo caratterizzata dall’offuscamento dello stato di coscienza, dalla manifestazione di turbe emotive e da uno stato di malessere generale che colpisce la persona affetta. Per la sua natura prettamente psichica, il tarantismo è paragonabile a quelle disfunzioni simili all’epilessia e all’isteria. In base ad alcune credenze ampiamente diffuse in antichità nell’area mediterranea, e in epoca più recente nell’Italia meridionale, il tarantismo sarebbe invece causato dal morso di un ragno particolarmente presente nelle campagne del sud Italia. Nella campagna agreste del Salento, a quanto pare, l’aracnide avrebbe trovato il suo habitat ideale e ciò consentì una profonda radicazione del fenomeno nella società del tempo. Nell’ambito della medicina popolare la sintomatologia del tarantismo, generalmente manifesti in soggetti femminili, anche se la percentuale degli uomini affetti non è trascurabile, trova risposta terapeutica in una sorta di danza rituale. Questo “rito” è partecipato da un gruppo di persone specializzate nella cura domiciliare della “tarantata” i quali, avvalendosi di uno specifico apparato ritmico, musicale, coreutico e cromatico, oltre che di oggetti e ambientazioni rituali, riuscivano a guarire l’ammalato che, di conseguenza, poteva reintegrarsi perfettamente nella società essendo il tarantismo unanimemente considerato una malattia vergognosa da nascondere ed economicamente grave. Ogni anno, con cadenza ciclica – generalmente all’inizio dell’estate e per tutti gli anni a venire sino all’avvenuta e completa guarigione – l’ammalato era colto da una particolare forma di grave malessere interiore ed esteriore il quale poteva essere curato, anche se solo pro-anno, attraverso l’anzidetto tale “rito”.
In questo complesso sistema ideologico, condiviso da una popolazione vastissima ed eterogenea, la persona sofferente era detta “tarantata”, appellativo generato dalla convinzione, così come anticipato, che il “male” derivasse dal morso velenoso di un ragno detto volgarmente “taranta” il quale, in realtà, è un animale simbolico non essendo zoologicamente identificabile con alcuna specie nota di aracnide o rettile così come ha chiarito, nel 1959, l’etnologo Ernesto de Martino nella sua famosissima monografia intitolata “La Terra del Rimorso”. Il tarantismo è un fenomeno con il quale si sono confrontate diverse scuole di pensiero e discipline: etnologia, psicologia, storia delle religioni, mitologia, estetica, medicina, antropologia culturale, etnomusicologia, zoologia, psichiatria etc. I tentativi di comprensione, tuttavia, non possono prescindere da un approccio multidisciplinare e ciò per fare in modo che essi non si esauriscano in un’analisi medico-diagnostica che ne individui il carattere psicopatologico né tantomeno che etichetti semplicisticamente il tarantismo come frutto dell’ignoranza e della credulità popolare.
A distanza di quasi un sessantennio dalla registrazione delle musiche tradizionali galatonesi, effettuata nel 1954 da Alan Lomax in collaborazione con il grande etnomusicologo Diego Carpitella, e a un decennio dalla pubblicazione di esse nella pregevole raccolta “Italian treasury Puglia: the Salento”, oltre a sei edizioni della “Notte della Taranta”, Galatone riscopre la sua pizzica ma, nonostante il dovuto plauso, la piccola città lo fa in modo scorretto. Questo perché la “taranta” è erroneamente posta come “modello musicale” locale e, inoltre, dimentica tutti coloro che effettivamente hanno fatto la storia della musica popolare in quella che era una città prolifica sotto questo aspetto. Come ignorare, infatti, che nella raccolta di Lomax vi è una versione inedita del Santu Lazzaru galatonese cantata dal maestro barbiere Mario Danieli assieme al fratello Augusto quando, per altro, quest’ultimo suonava nella “Piccola Orchestrina” del grande maestro guaritore Luigi Stifani. Famiglia, quella dei Danieli di Galatone, le cui serenate restarono indimenticate nella memoria dei tanti che emigrarono all’estero alla fine del conflitto mondiale e che, la sera dopo il lavoro nei campi assieme ad altre famiglie di tradizione “barbieristica”, si trasformava in un vero e proprio centro di aggregazione popolare ovvero in luogo di racconti, di chiacchiere e, soprattutto, di esecuzioni musicali. Esecuzioni, queste, che tutto erano tranne che pizzica – e ciò già prima di quel periodo di forte declino quando essa era eseguita, se tutto andava bene, due tre volte l’anno – la quale era superata dalle più popolari quadriglie, valzer, mazurke, polke, eseguite con sublime maestria e senza approssimazione. Come si fa, ancora, a dimenticare Biagio delle fogghie,autore di tante canzoni carnascialesche i cui testi sono dei veri e propri resoconti del suo tempo come, ad esempio, in Scusate, amici cari, nel quale si riferiscono alcuni fatti storici galatonesi del 1913, oppure in Malidettu lu cinquanta dove descriveva lo scenario politico post-bellico sino primi anni 50’. Inoltre, il Biagio fu autore di diverse arie che hanno trovato sponda dapprima nel carro itinerante di Peppino Camisa, suo amico ed allievo, e poi in quello dei figli e ancora in quello dei nipoti di quest’ultimo il quale, non si può negare, resta tuttora un personaggio indimenticato dagli anziani di Collemeto, Seclì ed Aradeo per via di quel suo carro addobbato e per quelle sue strofe “di dispetto”. Con l’occasione, bisogna anche rimarcare che il riconoscimento della musica tipica di Galatone, prima di essere definitivamente attribuita alla città, ebbe un lungo itinere – da Muro leccese a Sannicola – e, inoltre, non pochi furono gli sforzi per elevarla alla dignità musicale che oggi le si riconosce sfatando quanto disse recentemente un giornalista galatonese secondo il quale essa era solo conosciuta dai quattro appassionati di pizzica quando, nella realtà, la stessa è da molti nota e persino riproposta da musicisti non pugliesi o, addirittura, non italiani.
Quando la RAI alla fine degli infausti anni ‘40 cominciò ad affacciarsi nel sud Italia con i suoi studi di registrazione mobili per documentare le campagne di ricerca volute dal Centro Nazionale di Studi sulla Musica Popolare, furono raccolte, con l’ausilio dell’instancabile lavoro di Giorgio Nataletti, Diego Carpitella, Ernesto De Martino, Alan Lomax e altri studiosi che con passione si dedicarono alla ricerca e allo studio di questi repertori, preziose registrazioni di musiche italiane di tradizione orale. Il merito di questo lavoro, tra le altre cose, è di aver permesso di preservare alcuni di quei canti che una specie di “iconoclastia modernistica” ha voluto in seguito distruggere come a voler cancellare, da un certo momento in poi, tutto ciò che aveva avuto un contatto con il passato.
Oggi con questo revival del tarantismo diretto a favore di un commercio turistico meramente stagionale si assiste, invece, ad una “iconoclastia selezionista” dove per salvaguardare il bene di pochi (interesse economico!) si distrugge non solo la possibilità di studio del metodo musicale ma, soprattutto, si pregiudica gravemente la trasmissione alle generazioni future di un prezioso bene di cultura immateriale e di identità territoriale (non monetizzabili!). Insomma, per dirla in breve, qui si corre il rischio che della taranta ci rimanga solo il veleno. Cui prodest?