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Si chiude il mese della Decadenza con un post su una delle artiste più influenti della seconda metà del novecento:
Francesca Woodman, tormentata fotografa alla continua ricerca della percezione di se stessa.
Cominciamo con una breve biografia. Francesca Woodman (Denver, 3 aprile 1958 - New York, 19 gennaio 1981), cresciuta in una famiglia di artisti (il padre George è pittore e fotografo, mentre la madre Betty è una ceramista), scopre a tredici anni la passione per la fotografia e l’uso dell’autoscatto, rivelando un talento precoce. Tra il 1977 e il 1978 Francesca soggiorna a Roma per frequentare Rhode Island School of Design (RISD), dove ha modo di appassionarsi alle opere di Man Ray, Duane Michals e Arthur Fellig Weegee. Nella capitale conosce i proprietari della libreria antiquaria Maldoror, Giuseppe Casetti e Paolo Missigoi, che allestiscono la sua prima mostra personale in Italia. Nel gennaio del 1981 ha pubblicato la sua prima (e unica, da viva) collezione di fotografie, dal titolo Some Disordered Interior Geometries (Alcune disordinate geometrie interiori). Nel corso dello stesso mese, all'età di 23 anni, si suicida gettandosi dalla finestra dello studio newyorkese nel quale lavorava. Durante la sua carriera, Francesca Woodman utilizza sempre il bianco e nero (con esposizioni lunghe o doppie esposizioni che le permettono di partecipare attivamente alla scena) e predilige se stessa come soggetto delle sue foto, ritraendosi in particolar modo in contesti domestici, principalmente spazi spogli e decadenti, o in mezzo alla natura, da sola o con delle amiche. A chi le domandava perché utilizzasse spesso se stessa come modella la Woodman rispondeva: "E’ una questione di convenienza. Io sono sempre disponibile". Il suo lavoro è frutto di un'indagine introspettiva che elegge il proprio corpo a materia da esplorare e da fondere con l'ambiente circostante, inserendolo nell’universo delle cose, come se fosse una di esse o, meglio ancora, parte di esse. Così il corpo di Francesca, il cui volto rimane spesso celato, si assimila con gli intonaci dei muri, si nasconde tra i mobili, si confonde tra gli oggetti, si dissolve nella luce, divenendo un frammento nell’universo delle cose. L’idea di Francesca Woodman si sposa con il pensiero del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty: “Visibile e mobile il mio corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è preso nel tessuto del mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove, tiene le cose in cerchio attorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo”. Confondersi con l’ambiente circostante non equivale a nascondersi ma a rivelarsi appieno, a ribadire un senso di intima unione col mondo e questa comunione con le cose significa anche farsi carico del loro deterioramento, della perdita di funzionalità, delle trasformazioni che la materia subisce. È una fotografia dura, malinconica e fortemente incisiva.
Francesca Woodman si è tolta la vita per la paura d’invecchiare, paura che rivela in un biglietto indirizzato a un amico: “Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate.” Così ha voluto e così è stato.
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