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Decadenza italica

Creato il 16 luglio 2013 da Tabulerase

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La sospensione dei lavori parlamentari del 9 luglio scorso, definita da Rosy Bindi un atteggiamento di “… eversione istituzionale del PDL …”, contro la decisione della Cassazione di fissare l’udienza per il processo Mediaset al 30 luglio 2013, restituisce l’immagine decadente di una classe politica inadeguata e inaffidabile che, schiacciando il nostro Paese oltre quel punto di non ritorno fatto di degrado etico e declino economico, ha già scritto il destino dell’Italia. Al netto delle questioni di etica pubblica, la politica italiana è stata profondamente segnata dall’ingresso nella scena politica di Silvio Berlusconi, condannato il 26 ottobre 2012 dal tribunale di Milano in primo grado a 4 anni per frode fiscale e all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, con una sentenza che attraverso le parole del Presidente del Collegio giudicante, Edoardo D’Avossa, lo ha definito come “… ideatore fin dai primordi del gruppo, di un’attività delittuosa tesa a una scientifica e sistematica evasione di portata eccezionale …” con una “… particolare capacità a delinquere …”.

Una vera e propria mutazione antropologica quella italiana, le cui ricadute sulla situazione socio-economica del Paese si stanno rivelando drammatiche, condannando l’Italia, come ha affermato Joseph Stiglitz intervistato da Federico Rampini, “… a rimanere a lungo in recessione”. Stiglitz, smontando il dogma del pensiero economico neoclassico e delle sue versioni neoliberiste, afferma: “… l’Italia è vittima di un fallimento dell’austerity europea, state pagando un prezzo più elevato della Grande Depressione, le vostre imprese sono penalizzate a tutto vantaggio di quelle tedesche. Non accusate Beppe Grillo di populismo. I temi che solleva sono legittimi, compresa l’opzione estrema di un’uscita dall’euro. Niente governissimo Pd-Pdl, per salvarsi l’Italia deve tagliare i ponti con la corruzione dell’era Berlusconi … Il livello di corruzione associato a Berlusconi e al suo partito non è compatibile con i programmi di governo di quelle forze che si battono contro la corruzione. Vedo più naturale una convergenza con Grillo”. Riletta alla luce di quello che è accaduto dopo, quell’intervista testimonia la propensione della classe politica di centrosinistra del nostro Paese a fare sempre scelte incomprensibili, profondamente antistoriche. Scelte di cui il gruppo dirigente, sempre più eterogeneo, disorientato e sganciato dalla realtà contingente, rivendica con forza legittimità politica e culturale. E così oggi, nonostante l’esperienza dell’ultimo ventennio, nato all’insegna del fallimento della Bicamerale, ci ritroviamo con un governo di “larghe intese”, incapace di reagire alle emergenze del Paese perché costretto ad una condizione di inazione dalle vicende giudiziarie di un solo uomo.

L’agenda politica racconta di abolizione dell’IMU, di revisione della legge elettorale, di riforma della giustizia. Tutto questo mentre il Paese brucia. Le recenti stime delle organizzazioni internazionali sulle performance dei paesi dell’eurozona collocano l’Italia in posizioni che testimoniano un rischio significativo di fallimento del sistema-paese. Il panorama sociale italiano rivela orizzonti e prospettive preoccupanti e inquietanti, trovando il suo compimento in una pressione fiscale che piazza l’Italia al di sopra della media dei paesi OCSE: rispetto alla media europea, che si aggira secondo EUROSTAT intorno al 34%, la pressione fiscale nel nostro Paese è passata dal 42,9% del 2011 al 45,6% del 2012, per arrivare al 47,3% nel 2013. A fronte di una disoccupazione che, secondo OCSE ed EUROSTAT, entro l’anno potrebbe superare il 12,5% con punte record di 38,4% tra i giovani con età compresa tra i 15 ed i 24 anni. Del resto la progressiva corrosione del sistema-paese sul piano dell’efficienza e della governance nel periodo 2008-2012, è dimostrata dall’International Institute for management development (IMD). Una performance di competitività confermata dal World economic forum (WEF) che colloca l’Italia nella classifica del The Global Competitiveness Report 2012–2013 al 42° posto su 144 paesi, in discesa rispetto alla rilevazione precedente. Nello specifico, secondo il WEF “… fin dall’inizio della peggiore crisi economica e finanziaria che il mondo occidentale abbia sperimentato dalla Grande Depressione, le economie dell’Europa meridionale, insieme con l’Irlanda, si sono trovate nell’occhio del ciclone. L’eccessiva spesa pubblica nel caso della Grecia, le banche in difficoltà in Irlanda e, più recentemente, in Spagna … e l’incapacità generale dell’Italia e del Portogallo a crescere e competere in un contesto globalizzato, hanno spinto queste economie sull’orlo del fallimento, mai come adesso dalla fine della seconda guerra mondiale …”.

Se, da un lato, l’ISTAT registra un crollo preoccupante dei consumi delle famiglie italiane, dall’altro, uno studio dell’Unione Europea, dal titolo Gini-Growing inequality impact – come raccontano Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini su la Repubblica del 9 luglio 2013 nell’articolo Le disuguaglianze insostenibili – rivela che l’Italia è tra i paesi europei con “… le maggiori diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito, e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi OCSE. Non solo: da noi la favola di Cenerentola si avvera con sempre minor frequenza, nel senso che le unioni si verificano non tanto tra fasce di reddito diverse ma entro le stesse fasce frenando la mobilità sociale. Inoltre, appare che la ricchezza si sta spostando verso la popolazione più anziana, accentuando il divario tra generazioni. Il crollo dei consumi in Italia è dunque associato ad un divario nella distribuzione della ricchezza che si è accentuato durante la crisi: oggi circa la metà del reddito totale è in mano al 10% delle famiglie, mentre il 90% deve dividersi l’altra metà”. Tutto ciò racconta di uno squilibrio del rapporto tra reddito da forza lavoro e capitale, fortemente sbilanciato a favore di quest’ultimo e le cui responsabilità – come affermato da Paul Krugman nei suoi articoli Robots and robber barons e Is growth over? apparsi a dicembre 2012 sulle pagine del New York Times – spettano tutte alla politica. In sintesi, una percentuale vicina al 35% della popolazione italiana vive in condizione di povertà assoluta o relativa e, quindi, di possibile esclusione ed emarginazione sociale. Vivendo le conseguenze peggiori di una gravissima decrescita che, secondo i più recenti dati della Banca d’Italia e del Fondo Monetario Internazionale, si aggira tra il -1,8% ed il -2% e con un debito che galoppa velocemente rischiando di sfondare il tetto del 130% del PIL (già quantificato a fine 2012 dalla Banca d’Italia in 2.000 miliardi di euro). Confermando in tal modo le ragioni a fondamento del taglio di rating all’Italia da parte di Standard & Poor’s.

Nadia Urbinati nell’articolo L’uguaglianza di Obama del gennaio scorso, afferma che “… la felicità pubblica è un ideale prioritario delle democrazie moderne dove l’intera struttura della società, dall’etica alla politica, ruota intorno alla persona, ed è valutata in ragione del grado di soddisfazione o di felicità che riesce a procurare a ciascuno. Il benessere e le libertà degli individui sono la condizione per misurare il benessere o il progresso dell’intera società. Rivalutando questa tradizione che dal ‘700 cerca di coniugare democrazia e giustizia, si può dire che c’è giustizia soltanto quando la riflessione pubblica non evade da questi compiti e non lascia il campo alla giungla degli interessi di chi è più forte”. Nel nostro Paese la felicità pubblica è sempre stata appannaggio di gruppi privilegiati di potere e di caste mosse dall’intento esclusivo di rafforzare le proprie posizioni di rendita a discapito del bene collettivo. Basti pensare alla classe dei baroni universitari e alla nomenclatura della politica italiana, agli ordini professionali e al salotto buono italiano, alla casta dei sindacati e a quella dell’alta burocrazia, che hanno prodotto politiche redistributive illusorie, apparentemente egualitarie, ma che in realtà nascondevano meccanismi speculativi e interessi particolaristici che con la crisi recessiva in corso sono esplose con dinamiche impreviste e inedite. Rivelando una struttura infradicita da anni di mal amministrazione e malapolitica, come già testimoniato a più riprese dalla Corte dei Conti in questi anni.

In Europe in the global age del 2007 Anthony Giddens propone un modello sociale di crescita sensibile alle istanze dell’Agenda di Lisbona del 2000 secondo cui entro il decennio successivo l’Unione avrebbe dovuto promuovere l’economia più dinamica e competitiva del mondo, fondata sulla conoscenza, capace di crescita sostenibile, con un incremento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e un aumento della coesione sociale e del rispetto per l’ambiente. Secondo Giddens la nuova Europa dovrà prendere: “dalla Finlandia il tasso di penetrazione delle Information and communication technology; dalla Germania la produttività industriale; dalla Svezia i livelli di uguaglianza; dalla Danimarca il tasso di occupazione; dall’Irlanda la crescita economica; dalla Repubblica Ceca il livello di cultura letteraria; dalla Francia il livello dei servizi sanitari; dal Lussemburgo il livello del PIL procapite; dalla Gran Bretagna lo spirito cosmopolita; da Cipro il clima; dall’Italia la cucina, annaffiata con vino ungherese …”. Un’analisi questa che sfata il mito della primazia della cultura italiana nel mondo, se l’unica qualità meritevole di attenzione pare essere quella della cucina, e conferma l’inadeguatezza della politica italiana sia della Prima che della Seconda Repubblica.

Un’immagine, dunque, più fragile di quella che governa la percezione collettiva e che è stata definitivamente demolita, come racconta la stampa internazionale, dal berlusconismo e dal bunga bunga. Più di recente Anthony Giddens nell’articolo Destra e sinistra esistono ancora, del gennaio scorso, ha sostenuto l’esigenza di “… un intervento programmatico di sana governance … in grado di preservare un welfare state che richiede sicuramente tagli e accorgimenti per fare i conti con un nuovo scenario demografico e sociale che tuteli ambiente e lavoro e garantisca … una ripresa sostenibile mediante un progressismo capace di conquistare consensi comprendendo le legittime preoccupazioni dei ceti medi su questioni come sicurezza, tasse e immigrazioni, ma senza rinunciare alle aspirazione di una società più giusta e più egualitaria, rese ancora più impellenti oggi dalle conseguenze del crack finanziario e dalle minacce del cambiamento climatico …”. Tuttavia, le analisi di sociologi, economisti e politologi, vengono regolarmente disattese dalla nostra classe dirigente che ormai, nel contesto del confronto politico e dell’azione di governo, pare privilegiare misere tecniche di mistificazione della situazione sociale o ipersemplificazione della realtà e strategie decisionali finalizzate all’aggregazione del consenso, alla sopravvivenza politica e alla perpetuazione dei privilegi di casta. Qualche giorno fa, Stefano Rodotà auspicava, citando Martha Nussbaum, “… quel necessario passaggio dalla politica del disgusto alla politica dell’umanità”, sempre più improbabile ma indispensabile per restituire speranze al Paese confermando quanto sostenuto da Barbara Spinelli nel fondo Il deserto dei delusi del maggio scorso: “Lo Stato, la politica, i cittadini: il triangolo resta malato, corrotto, e se c’è chi si rallegra per la tenuta del PD e la caduta del M5S vuol dire che ha un rapporto distorto con la verità. Il triangolo suscita non solo disgusto, ma voglia di altra politica … il PD ha poco da festeggiare e molto da rimproverarsi …”.

Il PD ha davvero molto da rimproverarsi. Votando la sospensione dei lavori parlamentari si è reso diabolicamente correo di un attacco inaudito alla Magistratura e al principio della “certezza del diritto”, inaugurando un nuovo pericoloso vulnus inferto alla già fragile democrazia del nostro Paese. Completando un quadro bipartisan di disarmante inconsistenza politica e di preoccupante vuoto culturale che il 7 luglio scorso dalle pagine del New York Times, Paul Krugman, in Defining prosperity down, ha definito come quella “bad policy” che soffocherà la ripresa.

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