Ogni sera, dalla sua stanza, un giovane timido spia con un cannocchiale una bella donna che abita nel caseggiato di fronte. Quando riesce a incontrarla, le confessa la sua passione. Sfiorato il dramma, l’epilogo è una lezione d’amore per tutti. 3 personaggi, 3 interpreti ammirevoli, e una tensione drammatica che cresce, arriva al culmine e si quieta con paesaggi teneramente “malincomici”.
In questo film l’intenzione del regista non è quella – contrariamente a quello che potrebbe sembrare – di contrapporre ad un amore inteso come l’infinito ‘a portata di barboncino’ (Celine) un amore romanticamente idealizzato. Il film, poi, sembra avere più a che fare col nono piuttosto che col sesto comandamento: infatti è in gioco non tanto la natura quanto la dinamica stessa del desiderio. Questa dinamica viene qui espressa dal regista articolando questi tre elementi: il desiderio del soggetto, l’oggetto di questo desiderio e la rappresentazione di quest’ultimo. Ma si può dare un desiderio senza rappresentazione? Ma si può dare un desiderio senza oggetto? Questa sembra essere la domanda che il regista si pone e ci pone.
Per tentare di rispondere a questa domanda dobbiamo sottolineare il ruolo giocato dalla rappresentazione in questa dinamica. Il film si apre con i due protagonisti divisi da un vetro (quello dello sportello del banco postale); tutta la vita di lei è guardata attraverso i vetri delle finestre di casa sua; tra lei che è guardata e lui che guarda ci sono di mezzo le lenti di un cannocchiale; lei stessa impugnerà un binocolo per guardare chi la guarda … in ultimo c’è il vetro della lente della macchina da presa che si frappone tra le vicende narrate e noi. Proprio per questo tutte le relazioni tra i personaggi del film sono sempre triangolari (lui che guarda lei mentre fa l’amore con uno dei suoi molti amanti; la padrona di casa di Tomek che vede lui con lei nel suo appartamento). Non solo si guarda, ma si guarda venendo sorpresi nel momento stesso in cui si guarda, trovandosi ‘guardati guardare’. Qui non è tanto importante sottolineare l’aspetto perverso e voujeristico del desiderio di lui o l’aspetto perverso dell’esibizionismo di lei; è, invece, importante sottolineare il frapporsi della rappresentazione tra il soggetto del desiderio e l’oggetto desiderato. Questo desiderio nel film è sempre mediato dalla rappresentazione. Qui il desiderio per essere eccitato ha bisogno di farsi rappresentazioni del desiderato: che il desiderio sia eccitato dalla rappresentazione di un corpo nudo oppure dalla rappresentazione di un amore ideale non importa: quello che importa è comprendere il senso di questa mediazione; la mediazione dell’immagine (soprattutto delle immagini che scorrono davanti ai nostri occhi mentre guardiamo il film).
Ora nel caso di un desiderio accompagnato da rappresentazioni potremmo parlare di concupiscenza (quella concupiscenza degli occhi di cui ci parla Giovanni nella sua prima lettera – 1 Giovanni 2,16). Potremmo dire che dove tra desiderio e desiderato si frappone la rappresentazione a venir meno è l’intimità stessa. Non a caso uno dei vissuti più perturbanti, che il film veicola, è quello della vergogna. Ora (con Sartre) potremmo considerare la vergogna (una vergogna non morale, bensì ontologica) proprio quella strana ed intollerabile esperienza del sentirsi caduti nel campo visivo dell’altro. É la contraddittoria esperienza del sentirsi-oggetto. Sentirsi guardato mentre si guarda convinti di non essere guardati comporta vergogna anche perché si prende improvvisamente coscienza del fatto che tra te e me c’è appunto la rappresentazione. É proprio in questo momento che viene allo scoperto quello che potremmo chiamare uno sguardo mediato dalla rappresentazione. Chi si rappresenta l’altro lo reifica appunto perché riduce l’altro ad oggetto di rappresentazione: lo mette a distanza per poi metterci le mani sopra. Il desiderio che ha bisogno di farsi rappresentazioni per essere eccitato porta alla violenza del mettere le mani addosso rendendo impossibile la carezza. Infatti lui non è capace di accarezzare il corpo di lei; anzi, quando entra in contatto col corpo di lei è incapace di vivere l’intimità della carne; è incapace di vivere l’intollerabile (per lui) vicinanza della carne. Ora che tra lei e lui non c’è più la lente di un cannocchiale il corpo di lei diventa intollerabilmente vicino (e quindi irrappresentabile) per lui.
Ma il desiderio ha anche bisogno di una certa distanza che non sia la distanza che impone alla cosa la rappresentazione; altrimenti la carezza sarebbe parimenti impossibile e l’eros sconfinerebbe nel porno. Ora quello che è incapace di vivere lei è proprio questa distanza. É proprio lui che fa irrompere nella vita di lei la possibilità di un desiderio che per essere quello che è ha bisogno in qualche modo di una distanza. All’inizio l’appello di questa distanza si fa sentire nella vita di lei quando quest’ultima scopre di essere guardata di nascosto. Infatti una volta saputo di essere spiata non si scandalizza, ma ne è incuriosita. A questo punto della storia questa curiosità è ancora una curiosità perversa fatta di un misto di voujerismo e di esibizionismo; è solo dopo aver saputo del gesto di lui (si è tagliato le vene per amore) che lei scopre quella distanza (non rappresentabile) che sola rende possibile al desiderio il suo essere non solo appagato, ma molto di più: corrisposto.
Questa distanza (non rappresentabile) non è più la distanza dell’oggetto desiderato dal soggetto desiderante – questa è ancora una distanza rappresentativamente intesa (gnoseologistica – vorrei dire). Questa distanza abita e deve abitare il desiderio dall’interno, per cui non è più essenziale al desiderio non solo la rappresentazione, ma anche l’oggetto (e non si dà ob-jectum senza vor-stellung). Nell’intimità vicinanza e distanza si danno insieme senza mai entrare in rapporto e dischiudono la possibilità impossibile di un desiderio senza rappresentazione e quindi senza oggetto.
Ma allora cosa desidera il desiderio? Per tentare di rispondere a questa domanda non possiamo più chiederci quale sia l’oggetto del desiderio. Impostata in questi termini la domanda, già presupporremmo una certa risposta, come abbiamo ampiamente visto. Allora chiediamoci qual è l’altro del desiderio. Ora l’altro del desiderio non può che essere il desiderio dell’altro. Chi desidera desidera di desiderare – anche se lui non lo sa. Per vivere in maniera liberante il proprio desiderio bisogna prima di tutto mettere in crisi quel modo (gnoseologistico) di vivere l’eros come rapporto di un soggetto ad un oggetto (il film di K. Kieslowski ci aiuta a fare proprio questo).
Questo eros immaturo e bloccato che vivono i protagonisti del nostro film può essere sbloccato solo quando il desiderio si scopre come desiderio di desiderare o meglio: come desiderio di essere desiderato (dall’altro). Allora dall’eros si passa all’agape: finalmente due desideri si riconoscono, si incontrano, si corrispondono. Si comincia a scoprire che l’altro del desiderio non è un oggetto, ma ha un volto. Ebbene il film di Kieslowski ci fa capire tutto questo anche se in negativo: il film, infatti, si chiude proprio quando finalmente le condizioni perché lui e lei si incontrino sono finalmente date. Allora l’ultima battuta del film – “Ho smesso di guardarla” – ad un tempo chiude ed apre la possibilità di uno sguardo, di un desiderio finalmente liberato dalla concupiscenza; finalmente redento dalla macchia del peccato originale.
Stefano Valente
Scritto da Redazione il ott 13 2014. Registrato sotto FUORI ORARIO, RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione “–”