(leggi qui la prima parte)
LA PARTITA
Tutto era pronto per il calcio d’inizio.
Si gioca a portieri attaccanti: significa che, vista la penuria di giocatori, non ci si può permettere di avere un portiere che poltrisca sulla linea di porta e perciò questi è tenuto a coprire un doppio incarico: portiere e, alla bisogna, attaccante.
Centrocampisti e difensori sono ruoli ricoperti d’ufficio: in realtà l’altisonante titolo di attaccante spetta al giocatore che in quel momento è in possesso del pallone; gli altri sono solo di supporto al compagno attaccante, perciò centrocampisti, mentre gli avversari dell’attaccante sono naturalmente difensori.
I giocatori delle due squadre si potevano riconoscere da qualsiasi cosa che non fosse la maglia o i calzoncini, dato che ognuno era abbigliato come gli pareva.
Quasi tutti eravamo straccioni in maniera che si confacesse alla tenzone, e questo era un fatto normale: il nostro abituale abbigliamento era sempre adeguato al quotidiano ruolo di abitanti della strada.
Qualche genitore, a volte, tentava di abbigliare i propri figli con abiti che non gli dessero l’aspetto di vagabondi straccioni, ma qualsiasi cosa ci mettessero indosso nel giro di poche ore veniva omologata e resa idonea allo svolgimento delle nostre attività.
Tutti i nostri indumenti, benché colorati nella maniera vivace di quegli anni ’70, si uniformavano rapidamente ad un colore molto simile a quello dei mucchietti di terra che giacevano lungo le cordonate dei marciapiedi. Qua e là, poi, erano ravvivati da macchie di vernici usate per qualche lavoro di alto artigianato, e in genere i colori erano un bel rosso aragosta o uno sgargiante verde bandiera con spruzzate di giallo limone.
Le scarpe andavano dai sandali con gli occhi alle scarpe da ginnastica fino ai mocassini vecchi e ormai utilizzabili solo in battaglia.
Benché qualche mamma tentasse di infilare degli assurdi sandaletti ai propri pargoli, questi tentativi si rivelavano vani: per i maschi era fatto divieto assoluto di indossare calzature che lasciassero scoperto qualche dito dei piedi, e il divieto era imposto da noi stessi che ci sentivamo limitati da simili scomode calzature.
Non si era mai visto un calciatore entrare in campo con quei ridicoli sandali a croce, così come non si era mai visto un cow boy in ciabatte infradito. Avrebbe perso la possibilità di far fuori con un sano colpo di pistola il suo rivale che sarebbe morto da solo per le risate nel vedere i piedi all’aria del ridicolo pistolero.
Solo Tony era un po’ più ben vestito degli altri e per questo era leggermente svantaggiato.
Tony aveva un fisico più minuto e gracile, e indossare indumenti che non erano collaudati ed omologati per questi scontri lo metteva ancor più in posizione sfavorevole.
Combattere o giocare a pallone con la paura di rovinare gli abiti o semplicemente cercando di sporcarsi il meno possibile era un’impresa davvero ardua.
Per fortuna i bambini di oggi non hanno questi problemi.
Hanno costosa attrezzatura sportiva acquistata per frequentare la scuola calcio o il corso di basket se non quello sport tipicamente italico che è il football americano.
Le loro mamme sanno che presto diventeranno dei campioni che si differenzieranno da quei brocchi che sono i figli degli altri, sanno che i loro pargoli diventeranno milionari e loro non avranno più problemi economici, conosceranno veline e forse le sposeranno, così entreranno anche nel mondo della televisione.
I figli vengono spediti a spintoni a praticare attività sportive che non siano quelle appartenenti alla categorie degli sport poveri.
Il povero disgraziato che osa dire che vorrebbe fare tiro con l’arco o tennis da tavolo viene guardato con sospetto dalla mamma dal labbro imbotulinato che subito corre ai ripari distogliendolo da tali stupidaggini.
Ma il più delle volte, questi bambini ingrati non vogliono fare nessuno sport.
Non è necessario, visto che ne fanno già tanto con la X-Box, e poi a quell’ora ci sono cartoni su Sky.
Andiamo prima, bofonchia la mamma attraverso i wurstel che ha al posto delle labbra, ma prima non si può perché i cartoni sono a tutte le ore, ventiquattro ore su ventiquattro.
Qualcuno si accorge che vengono replicati e si rassegna ad andare a prendere a calci una palla usando i piedi invece di un più comodo controller.
Queste mamme stanno investendo sui figli, mentre le nostre mamme speravano che i figli non venissero investiti.
Così noi, senza borsone e senza futuro preconfezionato, ci apprestavamo a giocare la nostra partita.
Da una parte Giovanni, Tore, Tony e Aldo e dall’altra Alberto, Andrea e Mario.
Tore da il calcio d’inizio, passa a Aldo, ma Aldo pasticcia con i piedi e la palla finisce nelle grinfie di Andrea.
Tony aveva chiesto palla, ma nessuno lo considera: chiedere palla era un diritto che potevi arrogarti solo se eri un capitano, cioè uno di quelli che aveva fatto le squadre.
Andrea corre verso la porta avversaria. La palla non si passa a nessuno nemmeno a spararti.
Non stiamo giocando a passaggi.
Tutti corrono dietro a chi è in possesso del pallone: gli avversari per cercare di rubarglielo e i compagni nella speranza che lo perda e finisca nei loro piedi, magari davanti alla porta.
Io, quel giorno, non avevo molta voglia di correre e stazionavo vicino alla porta che difendevo.
Se mi fosse venuta voglia di correre mi sarei mosso per svolgere il mio secondo lavoro di attaccante. La mia strategia, per il momento, era di stare in porta. Non si sa mai.
Andrea è ormai quasi davanti alla porta. Giovanni, portiere, esce e si schianta letteralmente su Andrea che cade malamente.
Andrea vorrebbe piangere, perché si è fatto male, ma tutti sapevamo che se non volevamo essere considerati delle femminucce avremmo dovuto trattenere le lacrime anche in caso di gravi infortuni.
Qualsiasi grado di infortunio si subisse, la procedura che seguiva la vittima era sempre la stessa:
ci si buttava in terra di spalle, si prendeva tra le braccia la gamba offesa e la si portava verso il petto, oscillando nel contempo ora verso un fianco ora verso l’altro.
L’immagine che si voleva rendere, a beneficio della moviola di Carlo Sassi alla Domenica Sportiva condotta da Alfredo Pigna, era quella del giocatore di serie A steso a terra da un brutto fallo, ma principalmente l’iconografia ufficiale era quella di Gigi Riva assassinato dall’austriaco inimico.
Metti punizione, gridiamo noi, anzi metti rigore perché è in area.
Effettivamente l’area era stata tracciata e il fallo era dentro, secondo noi.
Giovanni si ribella alla decisione degli arbitri e pesta i piedi, gli arbitri della sua parte dicono che il fallo era fuori.
Si litiga già dal primo minuto di gioco, poi Giovanni dice che va bene: metti rigore che tanto te lo paro. Senza questo atto di puro eroismo forse saremmo ancora lì a fare ognuno la sua moviola.
Il ginocchio di Andrea perde un pezzo della crosta che aveva già da qualche giorno. Non sanguina, per ora.
Mi avvicino anche io per il calcio rigore, che deve essere battuto da chi ha subito il fallo.
Palla su una specie di dischetto. Rincorsa. Parte il tiro. Giovanni intuisce, ma non arriva a prendere il pallone. Esultiamo per il gol facendo quello strano verso quasi sottovoce ad imitazione della folla dello stadio Lenin di Mosca. Gridiamo sottovoce dicendo “go”. La elle finale si perde nel boato della folla.
Ma è solo palo, dicono loro, non c’è nessun gol per cui esultare. Come sarebbe, palo?
Questo era uno dei momenti più difficili delle nostre partite. La rissa poteva scoppiare all’improvviso, in questi frangenti.
Il problema è che dei pali erano segnati solo i punti in cui ci sarebbero dovuti essere i pali veri e propri. Erano segnati con dei mucchietti di pietre o con una pietra grande per parte, perciò lo sviluppo verticale del palo era lasciato all’immaginazione dei giocatori. Essendo ognuno di noi dotato di immaginazione del tutto personale e spesso non rispondente ai dettami della decubertiniana sportività, non si riusciva quasi mai a stabilire con una certa serenità se il pallone avrebbe potuto colpire l’immaginario montante, o se sarebbe andato fuori oppure in porta.
Tutti guardavamo attentamente, ma ognuno tirava acqua al suo mulino e non c’era mai un responso dato con sincerità. La posta in gioco era troppo alta.
Quando era troppo sporca, i sostenitori del “palo” discutevano un po’ ma poi si rassegnavano ad ammettere che era rete. Questa volta, però, non era così chiaro e si stabilì che era palo e basta. Giovanni esultò e Andrea, con una leggera increspatura delle labbra quasi come se volesse piangere, disse che il ginocchio gli faceva male.
Palo era come fuori perché non c’era il rimbalzo, quindi palla a loro.
Tore va in attacco, Giovanni passa a Tony che deve lanciare subito a Tore. Ma Tony è mingherlino e Andrea gli si butta subito addosso. Il dolore è passato.
Tony cerca di scartare.
Io decido che è meglio andare a dare una mano, visto che giochiamo in tre. Continua…
Alberto Loi
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