Difficile passare oltre le controversie quando è di hardcore che si parla. Se la band in questione si chiama Defeater, altrettanto difficile riesce non accordare ai ragazzi di Boston lo status di realtà decisamente rappresentativa e catalizzante. Reduci da un secondo disco che è stato una conferma e forti delle acquisite certezze in sede di songwriting, si trovano a mettere nero su bianco quanto di buono e dovuto hanno saputo riscuotere in questi due lunghi anni di tour e attese. Se la macchina musicale viaggiava fin dagli albori di Travels col ruggito di un hardcore moderno e tradizionalmente debitore alle ricette transatlantiche più recenti (una visita al catalogo Bridge9 potrebbe essere istruttiva a riguardo), lo faceva con gli optional di una visione musicale ben più fine della media, condita da un “toccante” ma quadrato approccio melodico e soprattutto dal sentito impianto narrativo, centrato su glorie e (soprattutto) sventure di una famiglia qualsiasi d’America, tetro “setting” in bilico (come candidamente ammesso dalla band stessa) tra Cormac McCarthy e Franz Kafka. Cos’è cambiato, dunque, due dischi dopo il folgorante esordio? Poco e niente: una stasi foriera di ottime nuove. I particolari in grado di elevare il sound in questione a vera e propria “marca” non hanno fatto altro che sedimentarsi, creando qualcosa di personale e riconoscibile, che in Letters Home trova un’ennesima e sonora riconferma. Quanto di caratterizzante offerto dall’andamento realista e cantautorale (sentire Alcoa, progetto dalle tinte folk, che trasudano “States”, del frontman Derek Archambault) non manca di integrarsi all’ormai canonico lavoro di cesello che da qualche anno fa dei cinque una tra le realtà più poliedriche e imitate dell’ambiente: se “Bastards” è un palese tributo all’aria che negli ultimi tempi è tirata nella Boston hardcore (la reunion in casa Modern Life Is War ne è un esempio), “Bled Out” chiude – e non senza grazia – il circolo narrativo con un pesante e sciancato canto del cigno. In mezzo, molta della merce tipica del territorio: tra l’atletica e altalenante “Hopeless Again”, pezzo che sembra saltare fuori dal loro ep Lost Ground, e la dissonante epopea del disincanto di “No Shame” c’è abbastanza materiale per annichilire qualsiasi sguardo ancora colpevole d’innocenza. Grande assente, a sorpresa, l’exploit acustico accalappiacani: se nel precedente episodio toccò all’evergreen “I Don’t Mind”, perché rinunciare proprio ora e ad un passo dall’abitudine? Il messaggio sembra inequivocabile (nonostante Billboard parli chiaro): per giocare a City And Colour c’è Dallas Green e l’aria è ancora troppo pesante per abbandonare i distorsori.
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