Lo scorso autunno mi imposi di scrivere con metodo. Almeno un capitolo al giorno.
Un pomeriggio aprii una parentesi sull'infanzia di uno dei miei personaggi. Poco per volta essa assunse i connotati di ciò che ricordo della mia. I silenzi, le strategie adottate dai parenti per mutarmi in creatura indipendente e integrata, per insegnarmi il valore del tempo.
Prima che imparassi a leggere, i negoziati prevedevano ubbidienza in cambio di storie. Quando non volevo mangiare, venivo indotta a farlo da adulti che centellinavano le pagine di un libro illustrato. Per dimenticare ciò che avevo nel piatto dovevo nutrirmi da assorta.
Il mio primo incontro con il surrealismo avvenne tramite i sogni di mio padre. Quando non tornava troppo tardi dal lavoro, mi raccontava storie improvvisate per farmi assopire; storie di animali parlanti. Io ascoltavo rapita, e non sempre ero la prima ad abbandonarsi alle spire dell'oscurità.
Ricordo serate durante le quali mio padre scivolò nel dormiveglia mentre stava ancora narrando, e le derive oniriche che per qualche secondo conducevano la storia in luoghi radicalmente altri, prima che il silenzio scendesse su di noi.
In uno dei letti occupanti la grande casa dei miei nonni paterni ascoltai più e più volte il racconto dei viaggi al Polo Nord di una donna anziana e di sua nipote. Eravamo Lilia ed io, ma con altri nomi, altre vite. Sedevamo insieme su una sedia a dondolo e, grazie ad un cappotto magico, bastava un istante affinché scomparissimo e ricomparissimo a migliaia di chilometri di distanza dalla camera da letto in cui dormivo durante l'estate.
Come se l'avessi vista con i miei occhi decine di volte, conservo la vivida immagine di una cerulea distesa di ghiaccio sulla quale si ergeva la sedia a dondolo. Poi c'eravamo noi, con altri tratti, altri vite.
La mia famiglia è una di quelle in cui i segreti si mantengono tali per anni, per non deludere, per non turbare. Lilia mi suggerì tante volte di curare il modo in cui mi presentavo agli altri, omettendo dei piccoli dettagli. So che ella fece lo stesso con me; passò un'infinità di serate a raccontarmi il suo passato, tralasciando ciò che avrebbe forse contaminato l'idea lucente che mi ero fatta di lei.
Adoravo stare ad ascoltarla quando scavava nelle profondità della storia della famiglia. I parenti polverizzati dai bombardamenti a Bologna, lo studio del mio bisnonno, le sue sorelle da bambine, lo stanzino in cui preparò di fretta gli esami universitari, la tesi di laurea su D'Annunzio.
Quando realizzai che quelle storie sarebbero andate perdute, se non fossi impegnata nella loro conservazione, era già troppo tardi. A distanza di qualche anno, non mi restano che frammenti, immagini isolate, fotografie parzialmente bruciate dagli acidi.
Nel corso dei suoi due ultimi anni di vita, Lilia ha continuato a raccontarmi storie sul suo passato, anche se in modo avvitato, onirico. Andavo a trovarla in casa di riposo, ed ella mi parlava, cercando con fatica le parole, di persone provenienti dal suo passato che erano state a trovarla quella mattina. Mi riportava conversazioni attraverso le quali riuscivo a vederla da giovane, come se mi fosse stato concesso il potere di viaggiare nel tempo. La vedevo attraverso il suo sguardo, la vedevo nel suo divagare attraverso i decenni con assoluta fluidità.
Verso la fine, contemplavo i suoi silenzi, i suoi momenti di vuoto, nascondendo la disperazione in cui l'assottigliarsi e il confondersi del suo vocabolario mi aveva gettata. Nell'estrazione macchinosa di singole frasi di senso compiuto, scorgevo ciò che era stata e ciò che era diventata. In certi momenti starle accanto era un esercizio di traduzione da una lingua onirica che a nessuno era dato conoscere a fondo. Sinonimi desueti di parole che avrebbe scelto in altre circostanze, parole il cui senso era intuibile solo abbandonandosi all'immaginazione.
Un pomeriggio la raggiunsi mentre era a letto. Le raccontai qualcosa, poi restammo per un po' in silenzio. Dopo qualche minuto, un rumore ritmico turbò la quiete. Ho provato a ricordare quale fosse la fonte; in quel momento la individuai subito. Forse un ramo mosso dal vento che urtava la finestra, oppure un macchinario collocato accanto al letto di una delle sue compagne di stanza. Quando ripenso a quel rumore, vedo solo l'immagine che prese forma sulla lingua di mia nonna. Mi disse che doveva essere un picchio impegnato a bucherellare una trave di legno del soffitto. Il soffitto non aveva travi di legno e le finestre erano chiuse, ma la sua spiegazione era infinitamente più poetica della mia. Dev'essere per questo che è l'unica ad essersi sedimentata dentro di me.
Negli ultimi tre anni l'ho rivista solo una manciata di volte.
La notte che trascorsi ricoverata in ospedale con la febbre alta, dopo che la cadenza trentina di alcune degenti anziane mi aveva risvegliato un ricordo corporeo della sua.
I momenti in cui mi è sovvenuto il ricordo della sua assenza e di riflesso, quello della sua presenza.
Ieri sera, per la prima volta, l'ho scorta sul mio volto, vedendomi di sfuggita allo specchio. Stavo suonando una delle mie canzoni preferite sovrappensiero, quando ho visto in me il suo modo di arricciare sottilmente le labbra. Lo faceva sempre nell'attribuire finezza a persone e oggetti, rigirando baffi immaginari tra il pollice e l'indice della mano destra.
(immagini: Karel Teige)