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Prima di tutto bisogna stabilire un punto: il principale deterrente al commettere un reato è la certezza della pena, e non la qualità della stessa. Se così non fosse l'Italia dovrebbe essere il paese più tranquillo e sicuro del mondo, ripulito persino da drogati, prostitute e puttanieri, dato che è prevista la detenzione anche per loro. Strano: le carceri italiane non sono posti molto raccomandabili, ogni tanto qualcuno muore in modo misterioso (150 all'anno, uno ogni 3-4 giorni), perché la gente si ostina a delinquere? Semplicemente perché se si pagano buoni avvocati non c'è niente di più facile che tramutare vent'anni di galera in cinque o sei, magari agli arresti domiciliari. Questo per parlare del processo, perché se spostiamo il discorso un po' indietro, mi sembra chiaro che se le forze dell'ordine arrestassero tutti quelli che girano con una canna in tasca in Italia rimarrebbe ben poca gente in circolazione. Tutta roba trita e ritrita, ma fondamentale per dire che se in Norvegia ti danno 21 anni, saranno 21 anni. Non ci sono scappatoie.
Seconda questione: la qualità della detenzione. Articolo 27 della Costituzione: "La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte". Sprecare troppe parole in questo senso è inutile, perché in Italia questa idea di pena semplicemente non esiste. Le carceri sono contenitori in cui mettere le persone cattive, ma ricollegandoci al discorso precedente, le "persone cattive" molto spesso sono poveracci a cui è stato assegnato un avvocato d'ufficio, gente che quando uscirà non avrà uno straccio di prospettiva e finirà quasi inevitabilmente a reiterare il reato e ricascare in un posto sovraffollato, gestito da personale carente, sottopagato e svogliato, in cui la prevaricazione e l'umiliazione sono all'ordine del giorno. Questa è l'immagine che abbiamo del carcere, e invece di indignarci come dovremmo liquidiamo la faccenda con un lapidario "se la sono cercata". In Norvegia a quanto pare non funziona così, a quanto pare prendono sul serio la funzione rieducativa della detenzione: i prigionieri vengono trattati umanamente e, cosa che i giornali si sono dimenticati di dire, si rendono utili coltivando la terra, imparando ad allevare animali e facendo legna. In altre parole, i detenuti vengono responsabilizzati.
Si può ribattere: ma come si può pensare che uno come Breivik possa essere rieducato? Qui ancora una volta entra in gioco la nostra meravigliosa stampa, che si è dimenticata di dire un'altra cosa piccola piccola: se si reputa l'individuo pericoloso per la società il periodo di custodia può essere prolungato a piacimento, con scatti di cinque anni, proprio in virtù della funzione primaria del carcere, vale a dire rieducare i detenuti, e quindi può accadere (e accade) che un pericolo pubblico dopo aver scontato la pena non lo sia più, semplicemente perché gli si è data una prospettiva, un'idea di vita diversa da quella che l'aveva portato a delinquere. Breivik è un caso fuori dal normale, qualcuno potrebbe dire patologico, ma chissà come sarà tra 21 anni o 30. Qualcuno giudicherà a suo tempo, ma di certo il compito non spetta a noi, che purtroppo siamo immersi in una società degenerata fino al midollo a tal punto da non renderci più conto di cosa sia la normalità e dell'autentico significato della parola "civiltà". Leggete questo, e provate a immaginare, con uno sforzo indicibile, lo stesso discorso pronunciato da un'autorità italiana. Immaginate le reazioni, la nostra reazione, e capirete la differenza tra un paese civile e uno che, da qualche tempo a questa parte, è solamente spacciato per tale.
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