Per alcuni giorni sono stata in viaggio tra Milano e Trieste attraversando quattro stazioni, ciascuna col suo aneddoto da asporto, e una quinta appena sorvolata, nell’orbita del pianeta Marte. Seduta di fronte a un uomo mezzo greco, un certo Aghios, un buono a prima vista, che non si domandava se il primo venuto fosse il partito migliore al quale rivelare tanto di sé stesso, e presto o tardi ne pagava le conseguenze. Uno che mi assomigliava, sai. Ma assomigliava tanto pure a te. Di lui ho sentito dire che fosse un perdente. Malelingue. Se dico che mi somigliava, Aghios, e intanto somigliava pure a te, non era altro che uno come noi. E noi vinciamo, questo lo sottoscrivo, inseguendo ostinati la vita.
Così per Anghios, e il viaggio era un pretesto. Lui che non partiva mai, ora viaggiava per “bisogno di vita”, non di altro. Ma “dalla sua gioia e speranza non bisognava escludere del tutto la donna. Era tanto piena quella gioia e speranza che la donna – la donna ideale, magari mancante di gambe e di bocca – non poteva esserne assente”. Così abboccava all’amo di sguardi destinati a lui tanto quanto lo erano al panorama che scorreva alle sue spalle, dietro al finestrino (ma guai “se alle occhiate fosse seguita la parola, si sarebbe corso il pericolo di trovarsi trasportato di colpo da quella patria ideale al bosco più pericoloso”). Aghios contava i propri “tradimenti” già a decine, appena congedato dalla stazione di partenza. La donna ideale “giaceva nell’ombra fusa con molti fantasmi, parte importante degli stessi. Ma la donna non è sempre la stessa nel desiderio” – sono parole sue – “È vero che prima di tutto serve all’amore, ma talvolta la si desidera per proteggerla e salvarla. È un animale bello, ma anche debole, che se si può si accarezza e se non si può si accarezza ancora.”
Aghios ambiva a farsi delle amicizie occasionali, lontane dal suo quotidiano, con le quali sfoggiare la propria bonomia e generosità. Si ostinava a difesa della libertà (della quale non conosceva nulla, me ne sono convinta in quel vagone dove ne discorse a lungo tra sé e sé. O forse mi sembrava, i rumori del treno parevano rivelare mozziconi di frasi che solo io potevo decifrare). Avevo una scarpetta che penzolava sulla punta del piede disteso, e Aghios la fissava ipnotizzato, senza trattenere alcun pensiero. Così appresi il senso della sua “libertà”, quella di non amare alcuno, se non “tutta la vita, gli uomini, le bestie e le piante, tutta roba anonima e perciò tanto amabile. Anzi, “- sempre parole sue – “se fra gli uomini non ci fossero state anche le belle donne avrebbe potuto aspettare la morte con la serenità di un santo.”
Ma non potei assistere a lungo quel povero diavolo, cambiai carrozza prima che si compisse la fatalità del tradimento al quale correva incontro, stazione dopo stazione. Appresi in seguito che volle farsi amico un febbrile e inquieto giovane, dal quale ricevette confessioni in grado di annebbiare la sua lucidità. E che, al risveglio da un sogno, passata ormai Gorizia, seppe di aver rifiutato la compagnia della propria moglie, come pure quella del giovane e accettato invece quella della ragazza dallo stesso amata. Di averne accarezzato in volo, in preda a grande commozione, “la bellezza del corpo morbido, giovanile … i capelli biondi”, di averla avuta sotto di lui, incapace di allontanarla come avrebbe dovuto, come a volerla proteggere dall’”orrendo spazio … [che] era infinito e perciò quella posizione doveva durare eterna.”
Lo interruppe uno schianto, a seguito del quale credette di destarsi, dormire ancora e risvegliarsi a breve, ma a farlo fu soltanto il personaggio Anghios. Italo Svevo, che ne muoveva i fili, invece, restò ferito a morte. A nulla sono valsi i miei tentativi postumi di capire a cosa puntasse l’inizio della frase “Alla stazione di Tries”
Mi sento autorizzata a credere che, anche nel finale, Anghios non avrebbe rinunciato al desiderio. Come faremo entrambi, andando ciascuno verso la propria destinazione.
Italo Svevo, Corto viaggio sentimentale, Ed. Newton Compton, 2014
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