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Dell’informazione e delle notizie “inventate”. E tu, o Accademia della Crusca, che fai?

Creato il 02 marzo 2016 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
petalosodi Gigi Montonato. Ma sta combinata proprio così male l’informazione in Italia? Possibile che si debba ricorrere a stravaganti trovate pur di dare qualche notizia fuori dalla paccottiglia giornaliera che non interessa più nessuno? I giornalisti sono tacitati, ovvero impediti di svolgere il loro compito al meglio delle loro capacità. Ma a chi giova tappar loro la bocca, costringerli a giochini miserabili e stupidi? L’informazione dovrebbe a questo punto interrogarsi sulla crisi che la sta mortificando e riducendo a poco più di un’azienda con sempre meno posti di lavoro. I prepensionamenti di tanti validi giornalisti sono la prova della difficoltà del settore. E’ improbabile che gli addetti ai lavori si intrerroghino da sé e si diano delle risposte. I giornali sono restii da sempre a parlare dei casi propri. E invece di lì dovrebbero partire, secondo l’assunto del vangelo, della pagliuzza nell’occhio altrui e la trave nel proprio.

Oh, “senta il caso avvenuto di fresco” direbbe il Giusti. Un bambino ha inventato una parola e subito la notizia conquista tutti i media e balza sulle prime pagine perfino dei quotidiani nazionali. Manco fosse stato inventato il più formidabile vaccino contro la più terribile malattia! Invece è una macroscopica balordaggine. Interviene perfino l’Accademia della Crusca, che sollecitata ad inserirla tra i neologismi, risponde con diplomazia: se e quando ricorrerà nell’uso comune.

Ma la notizia dov’è? Sembra che l’informazione vada alla ricerca spasmodica di qualcosa che la renda meno cattiva e monotona, tra guerre, mafie, femminicidi, unioni civili, rapine, spionaggi, depistaggi, crisi di borse e magari anche di Inter e Milan. O forse, come è più probabile, c’è una parola d’ordine degli editori ai direttori, e da essi ai giornalisti: non potendo parlare di cose serie, non potendo svolgere il compito specifico dell’informazione, fate come i maghi, trasformate le zucche in carrozze. Un po’ come si usa in dittatura, dove non si fa che celebrare il regime, tra bambini prodigio, spose fedeli, gesti eroici di umili servitori dello Stato, parate e parazioni.

Se è così, va bene pure che l’invenzione di una parola da parte di un bambino che, non sapendo come qualificare un fiore ricco di petali escogita l’aggettivo “petaloso”, faccia notizia. Ma, attenzione, perché la vera notizia non è del bambino bensì dell’informazione e della società nel suo insieme. Così l’informazione, che tende a nascondere le sue difficoltà, finisce per metterle al sole.

Che i bambini siano creativi non occorre rimarcarlo più di tanto. Il Pascoli spiega la sua poetica proprio con la creatività del “fanciullino”. “Egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente”. Il poeta è proprio chi da adulto conserva intatte le caratteristiche del bambino, tra cui in primis la capacità di stupirsi, di commuoversi, di comunicare in maniera originale e creativa. Non a caso un gran numero di parole le hanno inventate i poeti, non sempre “fanciullini” in verità. I linguisti hanno calcolato che Dante nella Commedia utilizza circa 27.700 termini, in gran parte da lui inventati nei modi più diversi, un’enormità se si considera che un suo grandissimo contemporaneo poeta come lui e forse di lui più raffinato come Guido Cavalcanti ne utilizza 800 e che l’area lessicale del volgare tra Duecento e Trecento passa da 4/5.000 vocaboli a 10/15.000.

Il bambino è naturalmente portato ad inventarsi le parole, sollecitato dal bisogno di nominare un oggetto, un fatto, un evento; non sa ancora che esiste un vocabolario. Va a scuola proprio per imparare a disciplinarsi, a non usare parole trovate lì per lì dalla sua immaginazione, ma solo quelle comprese nel codice linguistico in uso, ovvero nel vocabolario della lingua.

Allora, perché tanto rumore per una parola, oltretutto brutta e scorretta, come “petaloso”? Oggi si tende a concedere libertà espressiva a tutti, anche a costo di giungere alla Babele, ossia all’incomunicabilità. L’invasione delle parole straniere, inglesi soprattutto, è niente in confronto al gergo dei giovani che si esprimono secondo un codice linguistico liquido, tanto per usare un termine di moda, ad indicare un linguaggio in continua trasformazione e reinvenzione. Per non parlare dei social, dove si tuitta e si fesbucca dalla mattina alla sera con un linguaggio a volte inventato all’istante.

I bambini inventano per candore e innocenza, non sapendo che esiste un codice; i giovani inventano per ribellarsi ai codici e poter comunicare da iniziati, come tendono ad essere. E gli adulti? Non dovrebbero almeno essi dare prova di equilibrio e di saggezza? Macchè! Inventano pure loro, non solo parole, ma anche fatti, forse per diversivo, in presenza di un mondo che è davvero, come lo definiva Tommaso Campanella, “una gabbia di matti”. O forse di “mattei”. Il bambino che inventa la parola “petaloso”, in quanto notizia, è un’invenzione assoluta.

L’Ordine, invece, di organizzare inutili, ripetitivi e perditempo seminari di aggiornamento professionale, farebbe meglio a preoccuparsi della deriva che sta prendendo il settore.


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