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di Rina Brundu. Se dovessi metaforicamente raccontare l’arte poetica di Alfonso Cataldi che fa vivere la silloge “Ci vuole un occhio lucido” – una raccolta di 46 liriche divisa in tre parti di 13, 18 e 15 composizioni rispettivamente – direi che quell’arte è una sorta di Zona Franca proprio come immaginata dall’io che la canta:
La casa occupata ha grandi stanze
vuote, bianche, luminose;
è un calmiere per le spese vive
della prima linea
completamente da arredare
oppure lasciarla così
zona franca della fantasia
terra brulla per bivacchi lapidari,
inanimati. Un cartello affisso
sul cancello esterno avvisa:
tenete pure il cappello saldo in testa, sovente
è in corso un volo fossile di pipistrelli,
una resa dei conti
con le primavere di seconda spremitura.
È dunque una sorta di terra-desolata di eliotiana memoria l’universo presentato dal poeta Alfonso Cataldi; un universo il cui spazio-tempo si evolve, vive, si estrinseca al meglio dentro un tessuto post-modernista e post-moderno, decisamente digitale nella sua natura; un mondo dove anche la terminologia dei nostri tempi elettronici si impone con sfrontatezza, come un’intrusione destinata, impossibile da evitarsi, un calderone fumante di Interferenze diverse.
Dunque c’è un’interferenza radio
persistente,
la tua voce continua a sovrapporsi
a un jingle, e vai a capire
se è l’antenna puntata alle mie spalle,
la parabola in balcone
oppure il gps di quest’app che si attiva
a mia insaputa.
Disturba questa mancanza
di chiarezza in banda larga
che arriva, si, veloce e perentoria
come un do di petto che ammonisce
la platea. E ti scagiona.
Ci sono poi curiosi momenti di pausa, di ristoro, per lo spirito stranito, estraniato; curiosi momenti di incontro tra le necessità dei tempi e quelle dell’anima. Ne “Pur con le indicazioni ricevute” l’opposizione esterno-interno si rilassa, si lascia andar, si perde dentro “gli odori insistenti raccontati al telegiornale”. Ma questo non è sufficiente per il poeta che rimane generalmente timido, si nasconde, e si confessa: “Non ci so stare al centro delle cose” (Punti di vista).
La terra-desolata, a suo modo grottesca, riemerge quindi con prepotenza e in forma di imagery sostanziale quando si veste di cesure in corsivo, che sono veri e propri echi eliotiani, curiosi, goliardici, come in chiusura di Fino all’atto estremo:
Non disperarti Sofia, togli i lacrimoni
non è successo niente
hai solamente perso il ciuccio;
E, ancora, quel mondo a suo modo post-bellico, post-guerra pubblica e privata, continua a raccontarsi grazie ad un abbondante uso di giochi di metafore che strizzano finanche l’occhio all’impegno civile (La dovuta inchiesta), ma non solo.
In “Ogni poro ha memoria” piace la complessa strategia sineddica usata dall’autore – uno stratagemma tecnico a cui Cataldi farà ricorso in diverse parti del discorso as-a-whole –; la quale strategia setta il mood per la definitiva estrinsecazione e consacrazione del suo personale universo forse brullo ma finalmente abitato. Un universo dove anche le diverse parti del corpo umano e del mondo naturale (i “pori” come le piante), hanno coscienza, hanno memoria, esistono, dunque sono.
L’ennesimo passaggio sulla boa
avrà sembianza di (un) cratere spento;
lapilli e fumo acre sono tracce
conservate nel taglio del velluto
stirato sulla pelle, e ogni poro
ha memoria di correnti e pressioni
adatte per la cenere di adesso,
per l’uva della vigna di domani.
ll pino, offeso lungo il fusto, trova
l’essenziale sollevando l’asfalto.
La poesia “In frantumi” può essere senz’altro essere vista come uno dei segni, delle pietre miliari, scelte dal poeta per marcare l’inevitabile collasso a cui è destinato anche il suo mondo ricreato, proiettato, sbalzato in avanti dalla memoria.
Ricordo la navata ai tempi d’oro
la luce sugli affreschi originale
incontro agli occhi, compromessi,
ora e per sempre, da un boato umano
radente; dispersi dal sacro flusso
che orienta il centro e calma le derive,
in frantumi di tessere, a milioni:
tutte preghiere da ricostruire.
Con l’inizio della terza e ultima parte della silloge – terza parte titolata “In prospettiva di Sofia” – il gioco di echi e irriverenti richiami eliotiani non si interrompe; invece, si esalta nel momento in cui proprio il primo componimento di questa sezione genera la tanto curiosa quanto iperbolicamente ironica, opposizione tra l’immortale “April is the cruellest month” e il Germoglio di Febbraio presentato qui di seguito.
Nell’impeto del sole di febbraio
stralunato nei tuoi ricci intonare
versi d’amore par quasi autunnale
solfeggio di candele. Sulla sabbia
si veste di sorrisi un girasole
nel carminio riflesso che si spande;
come seme in dolce esilio presso
le tue labbra s’indebita di baci.
La terra brulla presentata dal poeta è destinata a rinascere dunque? Si tratta forse di un universo sull’orlo del collasso che coltiva speranza grazie all’io artistico timido-e-nascosto ma instancabilmente impegnato a cantare l’amore sanante, curante, di un padre, di un amante, di un marito, di un amico per la sua Sofia? Tutto può essere. Tutto può essere ma è anche esteticamente valido in questo tessuto poetico cataldiano intessuto di perle che sono veri e propri “geroglifici in polvere d’amore”. Ai posteri l’ardua sentenza.
Featured image, The Waste land (1922), cover.
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