Della terra desolata post-modernista e sui-generis e dei “geroglifici in polvere d’amore”: una breve analisi della silloge “Ci vuole un occhio lucido” di Alfonso Cataldi.

Creato il 04 gennaio 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

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di Rina Brundu. Se dovessi metaforicamente raccontare l’arte poetica di Alfonso Cataldi che fa vivere la silloge “Ci vuole un occhio lucido” – una raccolta di 46 liriche divisa in tre parti di 13, 18 e 15 composizioni rispettivamente – direi che quell’arte è una sorta di Zona Franca proprio come immaginata dall’io che la canta:

La casa occupata ha grandi stanze

vuote, bianche, luminose;

è un calmiere per le spese vive

della prima linea

completamente da arredare

 

oppure lasciarla così

 

zona franca della fantasia

terra brulla per bivacchi lapidari,

inanimati. Un cartello affisso

sul cancello esterno avvisa:

tenete pure il cappello saldo in testa, sovente

è in corso un volo fossile di pipistrelli,

una resa dei conti

con le primavere di seconda spremitura.

L’io del poeta si presenta infatti, sin da subito, dotato di caratteristiche precise e di una notevole qualità visionaria, laddove con poche pennellate decise, incisive, riesce a far emergere i tratti delineanti la sua personalissima terra-desolata. Una “terra brulla” dove vivono ambienti che sono stanze “vuote, bianche, luminose”, dove si mostrano “segni” in forma di cartelli che raccontano stagioni riciclate (“primavere di seconda spremitura”) e movimenti ossimorici (“volo fossile”), possibili soltanto nella “zona franca della fantasia” e nelle terre di confine. Nelle terre di confinamento dell’io che si racconta.

È dunque una sorta di terra-desolata di eliotiana memoria l’universo presentato dal poeta Alfonso Cataldi;  un universo il cui spazio-tempo si evolve, vive, si estrinseca al meglio dentro un tessuto post-modernista e post-moderno, decisamente digitale nella sua natura; un mondo dove anche la terminologia dei nostri tempi elettronici si impone con sfrontatezza, come un’intrusione destinata, impossibile da evitarsi, un calderone fumante di Interferenze diverse.

Dunque c’è un’interferenza radio

persistente,

la tua voce continua a sovrapporsi

a un jingle, e vai a capire

se è l’antenna  puntata alle mie spalle,

la parabola in balcone

oppure il gps di quest’app che si attiva

a mia insaputa.

 

Disturba questa mancanza

di chiarezza in banda larga

che arriva, si, veloce e perentoria

come un do di petto che ammonisce

la platea. E ti scagiona.

 

Ci sono poi curiosi momenti di pausa, di ristoro, per lo spirito stranito, estraniato; curiosi momenti di incontro tra le necessità dei tempi e quelle dell’anima. Ne “Pur con le indicazioni ricevute” l’opposizione esterno-interno si rilassa, si lascia andar, si perde dentro “gli odori insistenti raccontati al telegiornale”. Ma questo non è sufficiente per il poeta che rimane generalmente timido, si nasconde, e si confessa: “Non ci so stare al centro delle cose” (Punti di vista).

La terra-desolata, a suo  modo grottesca, riemerge quindi con prepotenza e in forma di imagery sostanziale quando si veste di cesure in corsivo, che sono veri e propri echi eliotiani, curiosi, goliardici, come in chiusura di Fino all’atto estremo:

Non disperarti Sofia, togli i lacrimoni 

non è successo niente

hai solamente perso il ciuccio;

 

E, ancora, quel mondo a suo modo post-bellico, post-guerra pubblica e privata, continua a raccontarsi grazie ad un abbondante uso di giochi di metafore che strizzano finanche l’occhio all’impegno civile (La dovuta inchiesta), ma non solo.

In “Ogni poro ha memoria” piace la complessa strategia sineddica usata dall’autore – uno stratagemma tecnico a cui Cataldi farà ricorso in diverse parti del discorso as-a-whole –; la quale strategia setta il mood per la definitiva estrinsecazione e consacrazione del suo personale universo forse brullo ma finalmente abitato. Un universo dove anche le diverse parti del corpo umano e del mondo naturale (i “pori” come le piante), hanno coscienza, hanno memoria, esistono, dunque sono.

L’ennesimo passaggio sulla boa

avrà sembianza di (un) cratere spento;

lapilli e fumo acre sono tracce

conservate nel taglio del velluto

stirato sulla pelle, e ogni poro

ha memoria di correnti e pressioni

adatte per la cenere di adesso,

per l’uva della vigna di domani.

 

ll pino, offeso lungo il fusto, trova

l’essenziale sollevando l’asfalto.

La poesia “In frantumi” può essere senz’altro essere vista come uno dei segni, delle pietre miliari, scelte dal poeta per marcare l’inevitabile collasso a cui è destinato anche il suo mondo ricreato, proiettato, sbalzato in avanti dalla memoria.

Ricordo la navata ai tempi d’oro

la luce sugli affreschi originale

incontro agli occhi, compromessi,

ora e per sempre, da un boato umano

radente; dispersi dal sacro flusso

che orienta il centro e calma le derive,

in frantumi di tessere, a milioni:

 

tutte preghiere da ricostruire.

 

Con l’inizio della terza e ultima parte della silloge – terza parte titolata “In prospettiva di Sofia” –  il gioco di echi e irriverenti richiami eliotiani non si interrompe; invece, si esalta nel momento in cui proprio il primo componimento di questa sezione genera la tanto curiosa quanto iperbolicamente ironica, opposizione tra l’immortale “April is the cruellest month” e il Germoglio di Febbraio presentato qui di seguito.

 

Nell’impeto del sole di febbraio

stralunato nei tuoi ricci intonare

versi d’amore par quasi autunnale

solfeggio di candele. Sulla sabbia

si veste di sorrisi un girasole

nel carminio riflesso che si spande;

come seme in dolce esilio presso

le tue labbra s’indebita di baci.

La terra brulla presentata dal poeta è destinata a rinascere dunque? Si tratta forse di un universo sull’orlo del collasso che coltiva speranza grazie all’io artistico timido-e-nascosto ma instancabilmente impegnato a cantare l’amore sanante, curante, di un padre, di un amante, di un marito, di un amico per la sua Sofia? Tutto può essere. Tutto può essere ma è anche esteticamente valido in questo tessuto poetico cataldiano intessuto di perle che sono veri e propri “geroglifici in polvere d’amore”. Ai posteri l’ardua sentenza.

Featured image, The Waste land (1922), cover.

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