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Della vita ai margini si vive... (1981)

Creato il 27 dicembre 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno

Pensieri sparsi...
Della vita ai margini si vive... (1981)
Dall’inizio del Novecento si è imposta l’esigenza di rivoluzionare ogni espressione artistica, la quale ha subito un radicale processo di trasformazione. Questo processo ha provocato un continuo distacco delle masse dall’arte. Il grande pubblico non si è mai del tutto riconosciuto in queste rivoluzionarie espressioni artistiche e ha preferito legarsi piuttosto a quelle mediocre e tradizionali. Ma se gli scrittori continueranno ad usare un linguaggio sofisticato ed esoterico per esprimere la loro visione della vita, il pubblico finirà con disinteressarsi del tutto della loro arte. E ciò rappresenta una perdita di umanità. Difficilmente gli scrittori sono capaci di rinunciare alle loro civetterie, ai loro linguaggi iniziatici. Continueranno a esperimentare nuove forme di linguaggio e non si preoccuperanno di stabilire un contatto con il lettore. Il problema del rapporto tra il pubblico e l’artista, secondo il mio punto di vista, dev’essere affrontato dalle fondamenta: se quanti più uomini possibili saranno messi nella condizione di comprendere i tanti significati dell’arte, la società nel suo insieme avrà compiuta un grande passo avanti.

Quali sono i fini ultimi che l’umanità si propone e perché, nonostante siano tanto desiderati, finora non sono stati raggiunti? Cos’è il senso tragico dell’ esistenza? Sono questi alcuni interrogativi che spontaneamente mi sorgono quando mi pongo di fronte alla vita in atteggiamento problematico. La vita è un continuo soffrire, e vivere significa semplicemente prolungare questa sofferenza. Atomi di massa informe, la nostra vita un giorno si dissolverà. Nel nulla.
Nello scorrere dei giorni ciò che manca è la riflessione. Tutto ciò che ci circonda ci impedisce di riflettere: la fretta, i rumori, i ritmi di vita...
Credo che la maggior parte degli scrittori italiani sia rimasta sostanzialmente legata a una concezione regionale del romanzo perché non è mai stata capace di elaborare una profonda e vasta visione della vita.
Continuare a scrivere è come un sogno. La scrittura cambia, e di molto nel tempo, e lo stile anche. Quando sento nell’animo guizzare una parola nuova, agguantarla mi costa fatica, perché fugge e si contorce in ogni lato, fino a che non si piega al mio voler e la comando.
Scrivere per me significa trovare una corrispondenza tra il mio mondo interiore e quello esteriore. Anche la finzione diviene autentica, perché in essa c’è menzogna. Lo scrittura è vissuta come un bisogno naturale, e quanto più scrivo tanto più la mia vita si arricchisce di significati.

Mi rendo sempre più conto che l’artista in quanto tale, ossia come creatore di immagini e di valori, nella nostra epoca non sia più indispensabile. L’artista vale in quanto è un produttore dell’industria culturale: solo al suo interno ritrova un suo compito e riesce a sopravvivere. Tuttora sono alla ricerca di un mio particolare stile, di una più consistente formazione culturale e letteraria, e di una maggiore capacità di scelta linguistica. Il problema prima di essere risolto nell’ambito delle mie specifiche capacità doveva essere affrontato nel significato stesso del romanzo. In una altra epoca, meno travagliata della nostra, tutti questi assilli non sarebbero sorti ed io avrei tranquillamente atteso al compito di scrivere un romanzo a prescindere dal valore del suo risultato. Il problema consiste anzitutto nel capire il perché non sia possibile scrivere come ai vecchi tempi. In altre parole, la difficoltà a scrivere un romanzo non è connaturata alla mia particolare condizione, ma affonda le sue radici in un’intera stagione storica, la quale non sa o non vuole più riconoscersi nelle tradizionali forme espressive; è una crisi avvertita solo dagli scrittori realmente profondi, che sensibili nel cogliere le trasformazioni storiche, si tormentano nella ricerca di trovare risposte adeguate.

Tranne rare eccezioni (Svevo, Pirandello, Gadda e Pavese), mi sembra che nella letteratura italiana del Novecento domini un grave ritardo letterario: nella maggior parte dei casi negli scrittori italiani noto l’assenza di una completa visione della vita e una incapacità a dialogare con altre letterature, come se la nostra letteratura vivesse in una sorta di autarchia culturale che le impedisse di elevarsi al di sopra di un altro orizzonte. A conforto di quanto ho intuito, trovo questo giudizio di A. Leone De Castris a proposito di uno studio critico dedicato all’opera di Italo Svevo: «Come la storia della nostra rivoluzione romantica, necessitata a incanalarsi e talvolta a identificarsi in un aspetto di lotta politica e nazionale, non offre alla nostra letteratura una problematica così vasta e profonda da paragonarsi a quella di altre letterature europee; così la medesima crisi di quelle ideologie, essendo crisi di una rivoluzione senza ordinamenti rivoluzionari e senza moti profondi, non esprime una letteratura come le altre colma di nutrimenti e di angosce totali, documento di una tensione destinata a rinvenire proprio nella sua materia sofferente i moti di una nuova civiltà» (Italo Svevo narratore, “La Rassegna”, novembre 1959). Con ciò non voglio dire che in Italia non ci fossero traduzioni, ma è che la lettura di autori stranieri costituisse un aspetto marginale: non si coglievano le sue istanze fondamentali, il nucleo della sua forza ideale. 
La tradizione letteraria italiana ha pesato molto sulla coscienza dei nostri scrittori e ciò ha impedito la formazione di una letteratura realmente capace di porsi a livello europeo. In molti scrittori italiani manca una serietà morale – di serietà morale parlo e non di moralismo, che anzi questo atteggiamento strabocca dalle pagine dei nostri romanzieri – della loro arte, senza la quale non è difficile cadere nella vuota superficialità e divenire di se stessi “professionisti della parola”. Lo scrittore italiano mi sembra facile preda delle mode letterarie, e spesso accade che la sua fama sia tributata più che all’opera al personaggio.
Ogni tanto nella vita mi piace trovare dei momenti in cui riflettere su argomenti vari senza seguire un preciso filo conduttore. Sono questi i momenti nei quali più volentieri medito sui miei progetti futuri. Momenti in cui mi affaccio alla quotidianità dell’esistenza per capirne qualche recondito segreto o avanzare una osservazione fuggevole.

L’esaltazione dell’amore, l’amore per i paesaggi notturni, il mito di un’immortalità che si incarni nell’arte: tutto ciò è morto, e ora un vento prosaico spira dalle sue membra. Tutto tace. E allora anche la poesia è morta? No, ma altri sono gli accenti e le sue armonie. Se il reale e l’ideale coincidessero, l’uomo sentirebbe ancora il bisogno di fare arte? L’arte s’origina dalla distanza che separa il reale dall’ideale, e questa distanza giammai sarà colmata, e l’uomo avvertirà sempre in sé un senso di insoddisfazione. L’arte prenderà forma da tutto ciò: e quanto il contrasto tra il reale e l’ideale si fa stridente tanto più nasce il bisogno di fare arte, perché soltanto attraverso l’arte possiamo dare a quel contrasto la sua cifra universale. Nell’arte come nei sogni i nostri desideri, le nostre angosce si concretizzano e assumono un aspetto reale.

In fondo lo stile cambia nel tempo, e di molto, e si perfeziona.


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