
Se si pensa al cinema nostrano è normale che la mente dell'appassionato torni automaticamente al passato, quel periodo storico in cui fare cinema voleva dire qualcosa di più di cinepanettoni, soliti idioti, notti prima degli esami e manuali d'amore. Senza andare a scomodare i grandi film e i premi Oscar, c'era il cinema di genere, i Bava, i Fulci, i Di Leo e i Corbucci; c'era un certo modo di fare film e un certo modo di produrli e poi vederli e, sicuramente, c'erano più idee e più qualità pur essendoci meno mezzi. Forse l'ultimo grande film di quel periodo e modo di fare cinema "piccolo", di serie B, risale al '94 ed è Dellamorte Dellamore, di Michele Soavi.

Qualcuno dirà: "grande film quello?", storcendo il naso e magari trattenendo un conato di vomito. Sì, grande film, film originale, film con una propria poetica, un'estetica, un proprio stile e soprattutto una propria anima. Tratto dall'omonimo romanzo di Tiziano Sclavi pubblicato nel '91, Dellamorte Dellamore è stato sempre scambiato per un film basato su Dylan Dog, personaggio di punta del disegnatore italiano, forse travisando la presenza di Rupert Everett che presta il volto al protagonista e che allo stesso tempo aveva ispirato Sclavi riguardo la fisionomia dell'indagatore dell'incubo. Francesco Dellamorte nasce però prima di Dog e ne è quasi un alter-ego oscuro, ne possiede caratteristiche in germe ma ha la fisionomia dell'antieroe, il che forse lo rende persino meno simpatico. E' un becchino, custode del cimitero di Buffalora, che di notte combatte contro gli zombi con l'unico aiuto del suo aiutante Gnaghi (un bravissimo François Hadji-Lazaro in una parte difficilissima). Sì, perchè nel piccolo paesino, come fosse una sorta di maledizione, i cadaveri entro sei giorni dalla loro dipartita tornano in vita. E Francesco è l'unico che lo sappia e che possa fermarli.

Perennemente in bilico tra horror e commedia, tra grottesco fumettistico e splatter, Dellamorte Dellamore è un film che corre su un filo e che più volte rischia di cadere. Perchè ha una doppia faccia proprio come il suo protagonista, un uomo solo che rifugge la solitudine, un eroe suo malgrado che però disprezza le persone che protegge, becchino di giorno e vigilante di notte, anima byroniana che si nasconde dietro una patina di gretta superficialità. Il macabro ha una propria poetica è l'aria surreale che si respira è romantica, quasi letteraria. Il tutto dipinto con toni visionari, con l'ironia sclaviana dei personaggi di contorno che contrasta con il decadente protagonista a cui viene affidata la filosofia carnale dell'autore. Il regista ci mette l'estetica horror nostrana, quella trash di teste mozzate che continuano a divorare carne e di non morti (i "ritornanti") che cavalcano motociclette e fondono eros e thanatos - appunto, (Dell)amore e (Della)morte - col background della commedia sexy italiana, senza mai elemosinare in gore (con gli effetti speciali di Stivaletti) e cattiveria satirica e dissacrante.
Soavi, per lungo tempo al seguito di un poeta come Lucio Fulci e di un (all'epoca) grandioso artigiano come Dario Argento, poi persosi in una senilità acuta, precoce e imbarazzante, rappresenta una meschina realtà provinciale, limitata e anacronistica, e la rende palcoscenico di una tragica messa in scena. Ogni personaggio è una macchietta, è esagerato, a volte è caricaturale. Ogni personaggio è un attore imprigionato in un ruolo che continua a recitare anche dopo la morte. E che altro è Dellamorte Dellamore se non una riflessione sui ruoli, tanto nella vita quanto nel cinema? Se ne rende conto lo stesso protagonista, che incrociando per tre volte l'amore sottoforma della stessa donna che però è tre donne diverse (in un esagerazione del capolavoro hitchcockiano), si lascia sovraffare dall'illusione e dal gioco delle parti, arrivando a confondersi con quello che ha di fronte, non riuscendo più a distinguere non solo quello che è reale da quello che non lo è, ma i diversi tipi di finzione. Alla fine non rimane che la pazzia o la fuga, aspirata quanto impossibile perchè Buffalora è il mondo, è il film, è un palcoscenico infinito su cui gli attori devono continuare a recitare e a confondersi nell'improbabilità delle parti che vengono loro assegnate.
Ricordiamolo, siamo in un B-movie e ce ne rendiamo conto: povertà di mezzi, trash e artigianato sgangherato. Poi c'è Anna Falchi, che presta le sue abbondanti curve in un sogno erotico che non riesce a mascherare la mancanza tecnica. Ma non lo percepite anche voi il lirismo e l'umorismo pirandellino, quel sentimento del contrario che si nasconde sotto ogni sorriso che lo spettatore non può trattenersi dal fare? C'è nelle frasi profonde e indimenticabili, nelle battute amare e nella fotografia crudele, crepuscolare persino sotto il sole. E poi la colonna sonora che disvela il segreto di un'opera che va oltre le apparenze e che vista oggi lascia una sensazione nostalgica. Se ne accorgerà chi ha vissuto Dellamorte Dellamore ai suoi tempi, in quegli anni novanta così poveri che guardavano al passato proprio come facciamo noi adesso, spettatori degli anni duemila.
Si era parlato, qualche tempo fa, della possibilità di un sequel diretto dallo stesso Soavi, che dopo questo film si è lasciato andare a esperienze televisive poco felici. Ora come ora di questo progetto se ne sa quanto un anno fa o, almeno, io non ho trovato nuove nuove da raccontare. Inutile dire che l'idea mi fa tanta paura ma allo stesso tempo mi elettrizza. Per ora limitiamoci a quel piccolo gioiello che è l'originale, l'ultimo grande film di un'epoca finita per sempre.