Mauro de Carli , Nòvo lenguagio, (centrale del trittico Acùmulatòre de particèlle), 35x50cm, tecnica mista su tela, 2009, collezione privata
Mauro de Carli – Die große Gesundhei - Cenacolo di Bagutta- aprile 2013
Questo non è un testo critico. Basta gettare un colpo d’occhio preliminare sull’intera produzione di Mauro de Carli per consentire al pensiero di fluire nei meandri dell’autoreferenzialità – René Magritte, Ceci n’est pas une pipe – e dar forma e sostanza a quella che è a tutti gli effetti una dichiarazione programmatica. L’opera di Mauro de Carlii è infatti troppo irregolare per essere categorizzata nello schematismo della ragion critica. Che in questa circostanza indossa le vesti della critica d’arte. Perché il sommo (?) filosofo di Königsberg, Immanuel Kant, chiamò il suo magnum opus Critica della ragion pura? Ma perché la suddetta critica era sia esterna che interna: non era solo un’analisi sulla ragione, ma era anche la ragione che, analizzando se stessa, puntellava i limiti di ciò che poteva esser conosciuto di là dall’universo di ciò che poteva invece soltanto esser pensato: Dio, l’anima, il mondo. Ecco, con de Carli la critica d’arte dovrebbe comportarsi allo stesso modo della ragione kantiana: soppesare se stessa. Anzi di più: accomiatarsi da se stessa. Perché un approccio metateorico alla produzione artistica di Mauro de Carli sarebbe solo vaniloquio, flatus vocis: parole, parole, parole, come diceva Mina. Questo è un testo in assoluta libertà perché risponde al carattere intrinsecamente rivoluzionario dell’opera carliana. Ecco qui, l’artista è ancora tra i vivi e noi abbiamo già inventato l’aggettivazione sostantivata che si usa di solito per i sommi – la produzione picassiana, byroniana, leopardiana, scespiriana, kantiana e così ad libitum.
Conobbi il succitato artista anni fa in occasione di una mostra collettiva a Milano, dove era stato presentato anche un suo lavoro. Mi fu indicato da un suo ex collega d’Accademia, il quale me l’introdusse così, con quel timbro nella voce che solo gl’individui dalla scorza dura sanno adottare: «questo è un disegnatore che spacca». In effetti fra le opere in mostra c’era un disegno, il disegno di Mauro de Carli. Raffigurava un soggetto antropomorfico il cui sguardo proveniva da nessun luogo e da nessun tempo; l’anatomia era espressa con segno nervoso e scabro e primitivo e infantile, umana e non umana, collocata in una messinscena, la dislocazione degli elementi della quale faceva pensare a un paesaggio mentale attraversato dalla sindrome di Tourette, mentre tutt’intorno vibrava una serie di enunciazioni verbali, autonome, fisse e sussistenti, frammenti di un universo di discorso familiare ma al contempo slegato da qualsivoglia contesto dotato di senso e codificato linguisticamente come un idioletto. Un grammelot, il grammelot di Mauro de Carli. E chi è questo folle?
Mauro de Carli, Last Knowledge,70×100 cm, penna su carta,2009
Ho parlato di “primitivismo”, o meglio, ho descritto l’opera definendola “primitiva”. Questa è infatti la cifra che investe di sé complessivamente il lavoro di de Carli, nelle occasioni in cui esso si declina nelle carte come nelle tele. Il pensiero corre a Jean Dubuffet ma anche al pittore Consalvi che mangiava i gatti nel film L’uccello dalle piume di cristallo (siamo in tema: l’assassinio avvenne in una galleria d’arte e la vicenda ruotava tutt’intorno a un quadro naïf). Naturalmente un parallelismo tra l’opera di Mauro De Carli e quella di Dubuffet non sta né in cielo né in terra e infatti siamo ben lungi dal farlo: le recondite armonie col referente illustre passano non attraverso il segno e la cifra stilistica, bensì per il retroterra concettuale che dà l’impronta di sé a entrambe le produzioni artistiche, intrinsecamente diverse l’una dall’altra ma accomunate dal medesimo grado zero di elaborazione colta. Niente tecnicismi, solo la parola ai folli: è la profonda affabilità di un linguaggio artistico assai vicino alla replica isomorfica del codice espressivo dell’infante. Com’erano profondi i Greci nella loro superficialità!, chiosava Nietzsche nella Gaia scienza.
Piuttosto per reminiscenza sono le carte, soprattutto le carte, ad accompagnarsi a un illustre precedente nella storia dell’arte visuale: il segno incisivo, primitivo e infantile, scabro nella dislocazione di elementi che tuttavia alla fine risultano giustapposti nella loro apparente caoticità e il ricorso alle sentenze epigrammatiche che sulla superficie disegnata informano di sé l’alfabeto carliano si coordinano per vie traverse, le vie della reminiscenza appunto, alla cifra stilistica del grande Basquiat. La collocazione culturale è naturalmente diversa (gli anni Ottanta di New York, il denaro e gli investimenti in arte, l’East Village e Madonna e Annina Nosei e Bruno Bishofberger e Andy Warhol e Keith Haring e Elio Fiorucci, un’epoca unica e irripetibile e altra rispetto all’Italietta de noartri), ma una certa familiarità unisce i due codici linguistici: gli “scarabocchi”, la trascuratezza della superficie, la scabrosità del segno, le sentenze e annotazioni verbali giustapposte agli elementi figurali e financo quell’essenza rocknrolla che impronta di sé i graffi retinici sulle superfici sgarrupate di tela, legno, carta.
Mauro de Carli, Sacra Conversazione
Certo nella produzione di Mauro de Carli la spiritualità emerge prepotentemente, di contro al qui-e-ora dell’insigne predecessore, ma chi l’ha detto che lo spirito non debba essere materia, nella fattispecie bella materia colorata? La trama segnica e pittorica assume nella creazione di de Carli le fattezze del valore simbolico: la figurazione è deframmentata in un universo proteiforme e magmatico di interpretazioni del testo pittorico, che sopravviene sulla figura come un grammelot pensoso e meditativo costituito di simboli che circonfondono l’immagine, vagolano intorno ad essa e vi si con/fondono, ne preservano la chiarezza e al contempo caricano di mistero la semantica della composizione complessiva, ottenendo come risultato una comunicazione a-logica composta di un linguaggio visuale enigmatico e inespugnabile.
L’opera di de Carli adotta dunque un duplice codice linguistico: iconografico e verbale. E l’affabilità della parola visuale rappresenta l’ultima germinazione del segno – pittorico, disegnato -, chiave di volta della figurazione espressa con anatomie ora modulari ora sconnesse, secondo una diade armonico/disarmonico coordinata con l’idioletto carliano che a volte parla al contrario perchè speculare al linguaggio simbolico dell’inconscio. Non v’è alcuna immagine cresciuta nell’etere del cervello in attesa d’esser trasposta su carta o tela, ma un flusso – stream of consciousness, James Joyce docet – in cui l’immagine stessa si edifica da sé, perimetrando lo spazio pittorico come il campo visuale della pittura egizia. Simbolico e reale coesistono nell’organizzazione della superficie tracciando una sorta di mappa mentale: è il meccanismo del pensiero e dello spirito, espresso secondo la privacy epistemica di Mauro de Carli creatore di un’impresa artistica che parla non della sur-realtà, bensì della sovra-realtà dell’apparato psichico universale, fatta di processi spirituali di cui il soggetto pensante è il soggetto inconsapevole. Se avesse illustrato il libro De l’Esprit del philosophe dell’Illuminismo francese Claude Adrien Helvétius, pubblicato a Parigi nel 1758 e subito bruciato sulla pubblica piazza come libro proibito dal clero e dal potentato politico, ebbene anche il Nostro sarebbe stato messo all’Indice dalla Santa Inquisizione. Troppo eretico. Troppo esoterico. Troppo rivoluzionario. Troppo matto.