Per quel che li conosco, i promotori del referendum di domenica non sono dei demagoghi coscienti, non sono, insomma, di quei politici che mirano ad ottenere il consenso popolare, fingendo di condividere i malumori e le pulsioni irragionevoli di una maggioranza. Non sono di quelli, per quanto ne so, che promettono risposte positive anche se insensate. E penso che la determinazione con cui conducono una battaglia sbagliata su due questioni molto popolari: l’abolizione delle province e il castigo della casta. Molto di sarebbe da discutere sul come e sul perché le due questioni siano tanto popolari. C’è una ragione in sé, naturalmente, e c’è una ragione indotta dal battage che i professionisti dell’anti-casta hanno fatto, fino a sconfinare nel populismo e, appunto nella demagogia. Non mi ci addentrerò. Sulla questione della abolizione delle province, a quel che ho scritto ieri, vorrei riferire una frase che a me pare illuminante, scritta da due economisti (Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, quest’ultimo nominato consulente del governo Monti): “Nemmeno la loro eliminazione produrrebbe effetti macroeconomici forti”. Non è- oso tradurre – uno di quei provvedimenti che risolvono i problemi: ha un significato etico al pari di altri provvedimenti senza “effetti macroeconomici” come – citano gli stessi economisti – la cancellazione di voli di stato, la limitazione dell’uso di servizio, la rinuncia al compenso da parte di alcuni ministri. Tutte cose eticamente apprezzabili e, credo, apprezzate. Ma val la pena chiamare i sardi alle urne per ottenere un risultato niente affatto risolutore della crisi economica e con due effetti deleteri? Il primo è la mortificazione della autonomia provinciale, il secondo il licenziamento di molte centinaia di dipendenti o la loro riconversione lavorativa senza, dunque, alcun risparmio. Che cosa c’entra la lotta contro la casta con tutto questo? Si vogliono mandare a casa assessori e presidenti provinciali? Basterebbe adottare un provvedimento simile a quello che vigerà in Italia: niente più giunte e elezioni di secondo grado dei consiglieri provinciali da parte di quelli dei comuni. Peggio si va, considerando il quesito sulla diminuzione dei deputati regionali da ottanta a cinquanta e l’aumento dei voti necessari alla elezione di un consigliere regionale 17.000 a 28.000, salvo sbarramenti. Questo significa che partiti e movimenti senza risorse finanziarie non potranno mai essere rappresentati nel Parlamento sardo. Questa non sarebbe la vittoria dell’antipolitica o anche solo della critica alla politica: significherebbe semplicemente che i partiti più grandi, quelli che possono mobilitare risorse economiche e finanziarie, non avranno concorrenti. Si possono naturalmente votare altri referendum non sospettabili di appiattimento sul populismo e la demagogia: quello sull’Assemblea costituente per la scrittura del nuovo Statuto e quello per la diminuzione non dei consiglieri ma dei loro emolumenti. Quel che temo è che andando a votarli, si rende possibile il raggiungimento del quorum anche degli altri referendum. E non sarebbe una cosa buona.
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