Democrazia e bellezza

Creato il 29 maggio 2011 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Papà era molto amico di Efrikian, musicologo e avventuroso esploratore di armonie zittite o rimosse da mode o da colpevole oblio. A lui si deve il fortunoso e fortunato ritrovamento di spartiti vivaldiani. Il prete rosso, secondo lui, era modernissimo ed adatto alla società mediatica che si stava preparando, perché aveva un formidabile senso dello spettacolo, della narrazione “teatrale”: basti pensare, ricordava, al temporale e ancora più alla sacra rappresentazione del sonno del pastore nell’Estate.
Ascoltando ieri sera proprio a Venezia – quale contesto migliore – l’ouverture dell’estate eseguita da Accardo mi sono una volta ancora stupita per la sua forza immaginifica e mi è venuto da riflettere sui rischi dell’abuso di bellezza. E sul pericolo di prendervi l’abitudine tanto da finire per non accorgersene per considerarla una doverosa scenografia su cui si svolge la nostra esistenza, una colonna sonora che fnamo per non sentire più come succede per quei jingle, quelle musichette che ci straziano al ristorante, nelle sale d’attesa, al supermercato e ci fanno venir voglio di una sospensione di un riposante silenzio.

Si perché quelle note di Vivaldi credo siano in cima alla hit parade delle sonorità che scandiscono l’attesa. Quella per essere messi in contatto con l’odiosa voce registrata dell’enel, con l’operatore n.11 dell’alitalia e sono diventate il ritornello della nostra impazienza e del nostro disappunto. E così – io sono fortunata, vivo a Roma e sono nata a Venezia dove torno di sovente – viviamo nel paese più bello del mondo, in città ricche di monumenti e con un paesaggio che rappresenta uno dei più straordinari giacimenti di ricchezze naturali, ma assediati dalle auto, sovrastati dalle miserie quotidiane, in corsa verso l’accumulazione ormai frustrata di beni inutili, dimentichiamo il bene inarrivabile e inimitabile di vedere ascoltare godere dell’armonia e del bello.
Si succede che a forza di averla intorno la bellezza sia faticosa. Magari perché ci distrae dal primato del brutto in noi e fuori di noi, dalla miseria, del nostro quotidiano nella quale sprofondiamo come in un precipizio e che crediamo di combattere con le sue stesse armi.

Mi succede spesso di pensarci,la bellezza finisce per essere come la democrazia, che, diceva Montesquieu, affatica perché richiede che noi siamo alla sua altezza, impone di ragionare e dialogare con gli altri e lavorarci intorno per mantenerla integra e farla crescere.
Così insieme alla manomissione della democrazia, è stata contaminata anche la bellezza. Eravamo così viziati dall’averla intorno come un fondale abituale che abbiamo pensato che un brutto palazzone non facesse poi così male, che un abuso non fosse poi un grave danno, che il nebbioso smog fosse un piccolo prezzo da pagare per la comodità, che la pena di non vedere le stelle fosse una risibile manifestazione di sentimentalità sdolcinata da innamoratini di peynet.
Mentre sostituivano alla democrazia la loro deriva fatta di autoritarismo, personalismo, svuotamento di valori e istituzioni, ci proponevano anche la loro bellezza. Quella dei manufatti di regime, corpi, quartieri satellite casting format esistenziali con gli stessi requisiti estetici, tutti ugualmente tonici, lustri e finti come nelle loro soap, nelle loro Milano 2, nelle loro convention, nei loro salotti, nei loro letti, nella rappresentazione di un Paese apparentemente moderno ma segnato dalla miseria pubblica, dall’ineguaglianza, dalla povertà di dignità, di solidarietà, di futuro e di immaginario personale e collettivo.

E dire che questo è un paese del talento, che ha reso bello il lavoro dando dignità ai suoi diritti e ai suoi valori, ha promosso la giurisprudenza a giustizia, ha impastato le materie della terra per farne i colori dei suoi capolavori, ha piegato le voci per farne canto e armonia.
Ed è per quello che io continuo come molti a essere posseduta dalla speranza. Perché d’improvviso la bellezza irrompe nelle nostre vite, ci sorprende, la riconosciamo dai suoi segni: due arcobaleni sopra Milano o una musica che ci canta dentro e ci stupisce. Ed è così che decidiamo che non c’è più posto in noi e fuori di noi per la turpe bruttezza, per certi veleni, per certe orchestre stonate.


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