La popolazione mondiale, dal Paleolitico alla Rivoluzione Industriale, ha avuto una tendenza alla crescita costante ma contenuta. La natalità, per quanto alta, ha sempre faticato a chiudere in positivo il saldo con la mortalità. I mezzi che la natura metteva in azione per regolamentare la crescita numerica degli uomini trovavano questi ben più vulnerabili che ai giorni nostri. Epidemie e catastrofi naturali erano realmente in grado di incidere sensibilmente sul numero degli abitanti di vasti territori. La peste nera, scoppiata intorno alla metà del XIV secolo in Europa, Asia e Vicino Oriente, influì talmente sulla crescita demografica che solo due secoli dopo la popolazione ritornò sui livelli precedenti alla pandemia. Meno rilevanti e più circoscritti territorialmente furono gli effetti di un’attività umana come la guerra, la quale, nonostante le evidenti ripercussioni demografiche, non aveva ancora messo in campo gli strumenti devastanti che abbiamo conosciuto nell’ultimo secolo. Tant’è che dall’anno zero al 1750 si stima che la popolazione mondiale si sia triplicata; una crescita equivalente avvenne nei due secoli successivi, favorita dall’industrializzazione; una progressione simile si è poi registrata dal 1950 ad oggi, in poco più di mezzo secolo, grazie all’enorme progresso nella capacità di affrontare situazioni emergenziali e nella cura delle condizioni igienico-sanitarie (di contro, il militarismo, pur avendo raggiunto potenzialità apocalittiche, ha trovato proprio in questo pericolo un freno alla sua applicazione su scala globale). Inoltre, dalla Rivoluzione Industriale in poi, lo sfruttamento del territorio è aumentato in maniera esponenziale, non solo in relazione alla crescita numerica, ma soprattutto per le mutate abitudini degli esseri umani, in un sistema economico fondato sul consumo e sul costante rinnovo tecnologico.
Già nel 1798, Thomas Malthus lanciava l’allarme per la bomba demografica, sostenendo che l’accelerazione nella crescita della popolazione, conseguente alla modernizzazione industriale, avrebbe portato all’impoverimento l’umanità con esiti catastrofici entro la fine del XIX secolo, in quanto la progressione demografica avrebbe proceduto ben più velocemente di quella della produzione dei mezzi di sostentamento. Di contro, molti studiosi mostrarono fiducia nella capacità del progresso tecnologico di far fronte alla pressione demografica, attraverso un proporzionale aumento della produzione dei mezzi di sostentamento. Oggi, queste due diverse prospettive hanno trovato compimento, da una parte, nell’autoregolamentazione demografica che, secondo le stime, dovrebbe portare dalla metà del XXI secolo alla stabilizzazione, se non alla decrescita, della popolazione; dall’altra, nel positivismo buonista, per cui la conoscenza tecnologica e la solidarietà umana fornirebbero in qualsiasi situazione i mezzi per fronteggiare le necessità crescenti di un mondo sovrappopolato. Ma mentre l’autoregolamentazione teorizzata da Malthus, liberata dall’originaria prospettiva puritana, si è dimostrata l’unica strada percorribile per arginare il sovrappopolamento in maniera quanto più indolore, la fede nel progresso e nella solidarietà si scontrano con l’evidenza delle situazioni di estremo disagio in cui versa una parte notevole della popolazione mondiale, non riuscendo ad incidere nel miglioramento delle condizioni di vita generali se non come la classica goccia nell’oceano.
Ad ogni modo, il sovrappopolamento rimane la principale incognita per quanto concerne la sorte futura dell’umanità. La presenza così pervasiva dell’uomo potrà essere tollerata a lungo dal delicato sistema della terra? L’uomo riuscirà a correggere i suoi modi e a riequilibrare il suo rapporto con la terra? A parte l’equilibrio sempre più precario tra uomo e natura, ha senso continuare con la retorica della vita su tutto, quando per una quota consistente della popolazione mondiale le condizioni di vita sono un calvario quotidiano? E la cosiddetta civiltà del benessere farà finalmente i conti col malessere, le disuguaglianze e lo sfruttamento indiscriminato su cui si regge o continuerà a trattarli come polvere da mettere sotto il tappeto, salvo poi strumentalizzarli nell’ottica del raggiungimento del consenso? Non esistono soluzioni per risolvere questa incognita che incombe sul futuro prossimo dell’umanità, ma di certo c’è bisogno di un cambio di mentalità, abbandonando la fiducia nell’onnipotenza della scienza e della provvidenza divina, per affrontare con onestà il groviglio delle problematiche legate alla pressione demografica e allo sfruttamento intensivo del territorio. Anche perché, nel caso che la natura si dimostri ancora clemente (o definitivamente impotente!) nel regolare l’ingombrante presenza dell’uomo nel pianeta, la forbice sempre più ampia tra fortunati e diseredati porterà gli stessi uomini ad autoregolamentarsi, magari nella maniera più atroce.