Denis Villeneuve: Prisoners

Creato il 18 novembre 2013 da I Cineuforici @ICineuforici
DENIS VILLENEUVEPrisoners(USA 2013, 153 min., col., thriller)
TRAMA. Boston. Keller Dover, padre di famiglia e onesto lavoratore, è vittima del rapimento della sua bambina di 6 anni, insieme ad un'amichetta. Dopo aspri contrasti con il Detective Loki, giovane e ambizioso poliziotto mandato a indagare sul caso, Keller decide di sequestrare l'uomo ritenuto responsabile del rapimento, affinché confessi dove tiene nascoste le bambine.  (cinematografo.it)
Affascinato dall'aumentare della tensione che si crea, in America, tra individuo e istituzioni, il canadese Denis Villeneuve offre la sua personale visione del sotto-genere thriller targato "parenti giustizieri", che a Hollywood negli ultimi dieci anni ha riscosso un certo successo, nel bene (Mystic River) e nel male (i due Taken). Se nei film citati i protagonisti erano in qualche modo speciali, che fossero ex-carcerati (Penn) o ex-agenti della CIA (Neeson), in Prisoners l'attenzione è posta sull'everyman di periferia, Keller Dover, interpretato da Hugh "Wolverine" Jackman. E più che su una banale resa dei conti, la narrazione si avvita attorno alla degenerazione di un idea, squisitamente americana, di fiducia in sè stessi, che porta l'uomo di sani principi a rapire e torturare (Guantanamo non è lontana); mentre lentamente l'attenzione viene indirizzata più sulla disperazione della vittima (o carnefice?) che sul caso in sè.
Villeneuve ha polso fermo nel dirigere il suo primo film in lingua inglese, a maggior ragione considerando che trovandosi nella tana del lupo (la fabbrica dei sogni, Hollywood o quel che ne rimane) riesce comunque a non farsi sedurre da soluzioni facilotte continuando a fare quello che sa far meglio: far parlare le immagini prima dei suoi personaggi, grazie a un sapiente utilizzo degli spazi (claustrofobici) e della luce (grigia, fredda, plumbea: autunno) funzionali a suggerire una sensazione di ineluttabile disperazione. Come in La Donna Che Canta l'intento è sempre umanitario senza mai scadere nel pietistico o nel didascalico. Più che sull'eticità-efficacia della tortura (rimandiamo a Zero Dark Thirty) ciò che interessa al canadese è cosa passa nella testa del torturatore; se infatti il film della Bigelow era una disamina chirurgica della tortura (problema-violenza-soluzione), il supplizio qui si compie nell'angoscia morale del protagonista. Punti forti della pellicola sono due: la contrapposizione adulta (nel senso di imparziale: non si patteggia con nessuno) tra Dover e Loki, e l'alternanza simmetrica dei loro punti di vista; e lo svolgimento, che come in La Donna Che Canta subisce dei salti e delle "omissioni" di una certa eleganza, che rendono il tutto più spigoloso, incisivo e tagliente. Prisoners in particolare si poggia sul simbolo reiterato del labirinto per esaltare la sua stessa "labirinticità", cioè i suoi stessi vicoli ciechi, le sue stesse scorciatoie e sovrapposizioni. 
Peccato che invece di approfondire ulteriormente queste trasgressioni, che aumentano prevedibilmente con il procedere dei minuti (complice un Paul Dano che si fa menare senza battere ciglio o quasi), Villeneuve si distragga nella seconda parte con un catalogo di oscure ritualità seriali portate alla luce dal detective Loki (Gyllenhall), e così il bel meccanismo originale si arena in un thriller di matrice fincheriana che, seppur implacabile e seppur di gran presa, non lesina certo in assurdità; così alcuni passaggi sono lasciati lì a supporto della loro stessa ambiguità (i serpenti, le motivazioni divine ecc.) e la soluzione appare infine vagamente macchinosa. Tolto qualche inciampo nel melodramma e qualche esagerazione narrativa (stiamo pur sempre parlando di 153 minuti), si potrebbe dire non a torto di trovarci di fronte a uno dei migliori thriller degli ultimi anni.
Stefano Uboldi

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