“There are moments that I’ve had some real brilliance, you know. But I think they are moments. And sometimes, in a career, moments are enough. I never felt I played the great part. I never felt that I directed the great movie. And I can’t say that it’s anybody’s fault but my own”.
Dennis Hopper
Chi ama questo genere sa che la sua natura, la sua vera essenza, non vive nei cavalli, nei paesaggi brulli, nei saloon fumosi, bensì in un’astratta, indescrivibile filosofia di vita, che si nasconde nella maniera che i personaggi hanno di affrontare il mondo, nello sguardo di uomini e donne dinanzi ai loro ostacoli, nel fatto che non si fanno conoscere per quello che dicono o per come parlano di sé, ma per ciò che fanno e che vive nei segni dei loro volti. Pensiamo a certe opere di Carpenter, 1997 Fuga da New York o il precedente Distretto 13, Le Brigate della Morte: non sono forse western? Jena Pliskin non è forse figlio di certe figure mistiche e misteriose di Eastwood, o il James Woods di Vampires non è forse un riflesso dell’Holden de Il Mucchio Selvaggio? Il western vive persino nello Spielberg de The Sugarland Express, nella ambiguità “schizzata” dei personaggi e nella grandezza delle emozioni legate alla desolazione del contesto polveroso. Quanti film, non appartenenti a questo genere ma comunque incredibilmente western, si possono trovare nelle carriere di Aldrich, i fratelli Coen, Siegel e Brooks, ma anche di Peckinpah e Eastwood? Se il Far West ci riporta ad un momento storico ben preciso, il western è anche uno stato mentale.
Hopper non è certo un nome che la maggior parte della gente associa al western, eppure è presente in tutta la sua filmografia. Iniziando la sua carriera ufficialmente a meta degli anni ‘50, Hopper, escludendo per un attimo le sue numerose apparizioni televisive, parteciperà a circa 150 film, legandosi nella primissima parte della sua carriera, sia sul set che fuori, a James Dean. Dean, che insieme a lui fece sia Gioventù Bruciata che Il Gigante, diverrà un modello per il giovane attore, che baserà sia la sua immagine che l’approccio viscerale ed aggressivo alla recitazione sullo stile dell’indimenticabile icona del cinema americano. “Jimmy era l’attore più talentuoso che avessi mai visto. Fu anche un artista guerrigliero che attaccò tutte le restrizioni della sua sensibilità. Una volta tirò fuori un coltello a serramanico e minacciò di uccidere il suo regista. Ho imitato il suo approccio nell’arte e nella vita. Mi sono messo in un sacco di guai per questo.” Importante l’influenza dei suoi primi registi: autori carismatici ed incisivi come George Stevens, Nicholas Ray, John Sturges e John Ford, da cui l’Hopper-regista mutuerà un senso dell’epico, un gusto per personaggi duri e “larger than life”, da contrapporre all’immagine e all’estetica di un’America mutevole. Nella prima fase della sua carriera fondamentali saranno anche i generi che andrà a toccare, il western soprattutto, che si insidierà nel profondo del suo Dna. Che cos’è Easy Rider, con il suo lavoro così attento alle lande americane, se non un riflessivo aggiornamento del West con hippie sui chopper al posto di cowboy a cavallo?Dopo la sua partecipazione a Gioventù Bruciata seguirà un contratto con la Warner con cui lavorerà prolificamente per tutto il resto del decennio, prendendo parte ad una media di due film all’anno. Nel 1956 Hopper interpreta Jordan Benedict III, figlio di Rock Hudson, nel già citato capolavoro campione di incassi di George Stevens, Il Gigante. Un sudato melodramma alla Tenesse Williams, che tra le altre cose ispirò Orson Welles a realizzare The Other Side of the Wind, opera misteriosa mai terminata. L’anno successivo, nel ’57, arrivano la prima colt e i primi speroni per il giovane Hopper. Ma andiamo con ordine:
1957: Sfida all’O.K Corral. Forse, per molti versi, la storia deve ancora rendersi conto della grandezza e l’influenza di John Sturges, autore tra i più moderni della sua generazione, soprattutto per l’approccio dinamico nelle sequenze d’azione e il montaggio scandito. Bravissimo nel gestire film corali, Sturges riusciva a valorizzare ogni attore al massimo. Non a caso, più di qualunque altro, è stato un creatore di star: Steve Mcqueen, Charles Bronson, James Coburn sono tra i grandi che l’autore ha notato ed è riuscito per primo a valorizzare. Verso la fine degli anni cinquanta Sturges è all’apice della sua creatività, avendo da poco firmato il capolavoro pulp-noir Giorno Maledetto. Sfida all’O.K Corral rimane ad oggi la migliore versione della storia dello sceriffo Wyatt Earp (Burt Lancaster) e del giocatore d’azzardo malato terminale Doc Holliday (Kirk Douglas), improbabile coppia che si ritrova al centro della leggendaria sparatoria. Le versioni più recenti dirette da Cosmatos (Tombstone) e Kasdan (Wyatt Earp), se pur più ruvide e per certi versi più realistiche, non sono all’altezza della creazione sia epica che ironica della “coppia”. Dopo una lunga fortunata carriera come uomo di legge, Wyatt decide di raggiungere i suoi fratelli nella città natale, a Tombstone, Arizona, per trovarli tormentati da una famiglia locale, i Clayton, ladri di bestiame. Hopper interpreta lo scapestrato Billy, il membro più giovane del clan dei Clayton. Osservandolo, sbarbato e con i capelli spesso bagnati che gli cadono sulla fronte, è piuttosto ovvio intravedere che cosa stessero cercando di fare gli studios: lanciare Hopper come una sorta di James Dean, un ribelle sensibile dall’occhio selvaggio. Memorabile la battuta di Hopper dinanzi allo sceriffo Lancaster: “I don’t know why I get into gunfights. I guess sometimes I just get lonely.” Rispetto a Sfida all’O.K Corral, ciò che lo lega a Dean è certamente la fragilità con cui costruiva i suoi personaggi, anche se nel caso di Dennis, questa ricerca dell’essenza della debolezza umana, più in là nella sua carriera, porterà a ben più inquietanti risultati…
1958: L’Uomo che non Voleva Uccidere. Il cowboy Tod Lohman (Don Murray) incidentalmente uccide uno dei figli del potente proprietario terriero Hunter Boyd (R.G Armstrong). Inseguito dai fratelli della vittima (tra cui figura in maniera predominante Hopper), Lohman si rifugia nel ranch di Amos Bradley e di sua figlia Juanita, di cui si innamorerà perdutamente, ma il suo passato gli darà la caccia e la resa dei conti non tarderà ad arrivare. From Hell to Texas, così suona il ben più evocativo titolo originale, è un’opera minore e, tutto sommato, dimenticabile nella filmografia di Henry Hathaway, un pò per il poco carismatico Murray, un pò per la sceneggiatura prevedibile nonostante un incipit interessante. Per anni a Hollywood è girata la leggenda secondo cui Hopper avrebbe preteso 85 ciak per una scena, incorrendo nella furia di Hathaway e in grosse difficoltà nella ricerca di altre produzioni. Solo una leggenda…
1959: Là Dove Brucia il Sole. Il primo ruolo da protagonista per l’allora diciottenne Patrick Wayne (secondogenito del ben più famoso padre, John) fu in questo piccolo B western. Una pellicola del tutto trascurabile, se non fosse per alcuni elementi di interesse: un tentativo, se pur non riuscito, di infarcire la storia di un sottotesto politico tra Messico e Stati Uniti e la bella colonna sonora ad opera di Dimitri Tomkin, che gli valse una nomination agli Oscar. Facendo parte di quel sotto bosco di pellicole che precede l’arrivo di autori come Arthur Penn e Richard Brooks, che nel decennio successivo con il genere saranno apertamente sovversivi e politici, The Young Land cerca di confrontarsi con temi controversi, quali i diritti civili e i pregiudizi razziali, tentando di porsi come specchio dei tempi che correvano. Il personaggio di Hopper è il motore del racconto. Macchiatosi dell’omicidio di un messicano, verrà tenuto in custodia dallo sceriffo Wayne in attesa del processo, mentre gli animi della popolazione messicana locale si infuocano reclamando giustizia. Hopper, nel ruolo del debole Nick Adams, per la prima volta si ritrova ad essere assoluto co-protagonista ma, come sottolineato molte volte dalle critiche al film, sembra eccedere nel voler ricalcare il suo mentore, creando un personaggio eccessivamente piagnucoloso e ‘adolescenziale’. Nel frattempo Dean è morto nella notte, tra le lamiere fredde della sua Ford coupé, ed una nuova era per il cinema americano stava per esplodere…
“A man’s gotta kill his own snakes”.
Dennis Hopper in Kid Blue (nella prossima puntata)
Eugenio Ercolani