“Like all artists I want to cheat death a little and contribute something to the next generation”
Dennis Hopper
Anche se esula dal discorso in atto sul western, è importante gettare luce su un aspetto fondamentale della vita di Hopper e cioè la ricerca di diverse spressioni artistiche. Quando la prima delle sue cinque mogli, Brooke Hayward, conosciuta i primi anni alla Warner, lo notò camminare per le strade inquadrando scorci di città con le mani, gli regalò per il suo 25 ° compleanno una Canon. Hopper gli dedicherà anima e corpo, per poi diventare uno dei più prolifici fotografi della sua generazione. Particolarmente importante sarà il suo occhio nel catturare l’evoluzione di Los Angeles, sia da un punto di vista urbanistico e architettonico, che da quello culturale. Quella Canon diventerà una compagna inseparabile, mentre lentamente si immergeva nella comunità artistica losangelina, fotografando e familiarizzando con il folle mondo che ruotava intorno al leggendario Ferus Gallery: Craig Kauffman, Billy Al Bengston, Wallace Berman, Edward Kienholz.
Come dichiarò in tempi più recenti, questa attività divenne la colonna portante del suo approccio artistico: “Stavo facendo una cosa che pensavo potesse avere qualche impatto un giorno. In molti modi, sono state davvero queste foto che mi hanno tenuto in carreggiata creativamente.”Le sue fotografie sono state incluse in quasi ogni libro o mostra sugli anni 60/70 e sono state ampiamente esposte nelle gallerie e retrospettive di tutto il mondo.
Hopper è scomparso poche settimane prima dell’inizio di una mostra dedicata a lui che si è tenuta al museo d’arte contemporanea di Los Angeles. Il suo stile artistico ha spaziato dalla pop-art all’impressionismo astratto, passando per il “photorealism”, la fusione di pittura con elementi fotografici, dando l’illusione di un’immagine “iperrealistica”. Dennis Hopper ha incontrato, lavorato o avuto modo di imparare da talenti incredibili, tra i quali alcuni degli artisti più influenti del ventesimo secolo: Jean-Michel Basquiat, Roy Lichtenstein, Marcel Duchamp, Man Ray e Salvador Dalì. Hopper è incluso, come già detto, in “Andy Warhol’s Screen Tests”, nota serie di film muti realizzati dall’artista tra il 1964 e il 1966, oltre ad aver ricevuto il grado di comandante in Francia ne l’Ordre des Arts et des Lettres per il suo contributo all’arte. Oltre che pittore era anche un colto e raffinato collezionista. Campbell’s Soup di Andy Warhol è stata la prima opera da lui acquistata per 75.00 $ negli anni sessanta. Con la sua incredibile sensibilità creò nella sua vita e intorno a sè una rete di artisti e talenti con cui confrontarsi, da cui trarre ispirazione ed ispirare a sua volta, al di là delle più consuete forme d’arte. Ironicamente, infatti, il suo cinema ha spesso influenzato o è andato a sovrapporsi ad altre correnti: basta constatare come il grande padre della fantascienza sovversiva, Philip K Dick, citi più volte Easy Rider nel suo romanzo “A Scanner Darkly”.
Torniamo però sul nostro sentiero…
1971: The Last Movie - Fuga da Hollywood. Il Western Maledetto. The Last Movie nasce circa dieci anni prima della sua realizzazione (1971). Scritto insieme allo sceneggiatore di Gioventù Bruciata, Stewart Stern, era stato concepito per essere il film del debutto alla regia di Hopper, ma le difficoltà nel trovare finanziamenti hanno protratto il progetto fino all’eclatante successo di Easy Rider nel ’69. La storia vede Kansas (Hopper), uno stunt coordinator, responsabile dei cavalli, sul set di un western in Perù. Dopo un tragico incidente in cui uno degli attori perde la vita, Kansas decide di lasciare il cinema e rimanere nel piccolo villaggio peruviano. Dopo la partenza della troupe, gli abitanti del luogo, con una improvvisata macchina da presa fatta di legni e ramoscelli, iniziano a dar vita alla loro versione del film western, in cui la violenza è tutta reale, non sapendo distinguere tra finzione cinematografica e realtà. Con un budget di un milione di dollari della Universal, Hopper passa gran parte del ‘70 nel paese sudamericano, portando con sé alcuni dei suoi amici artisti, tra cui il cantautore/attore Kris Kristofferson e il regista Samuel Fuller. I problemi arrivano in post-produzione, con un numero impressionante di ore di girato, e Hopper, a cui era stato dato il director’s cut, si rinchiude nella sua sala di montaggio a Taos nel Nuovo Messico. Con un grosso ritardo rispetto alla data di scadenza imposta dallo studio, Hopper conclude il suo “taglio” nella primavera del ’71. La causa è dovuta principalmente ‘all’intrusione di amici e colleghi’ che portano Hopper, all’apice del suo abuso di droga e alcool, a rimettere più volte mano al film, cercando un montaggio più sperimentale e anticonvenzionale. Nonostante un premio speciale della critica al festival di Venezia, The Last Movie sarà un flop devastante. Quel che accade dopo è ormai risaputo, Hopper verrà risucchiato in un vortice di eccessi e droga, portando una violenta frenata alla sua carriera in costante ascesa.
1972: Kid Blue. Bickford Waner (Hopper), apparentemente un ingenuo ragazzotto di Fort Worth, arrivato nella piccola cittadina di Dime Box nel Texas, inizia a fare vari lavori facendosi conoscere come bravo cristiano e buon lavoratore. Ben presto diventa amico di Reese Ford (Warren Oates) e di sua moglie Molly, che lo ospitano nella loro dimora. Ci vorrà poco prima che Molly cerchi di sedurlo, ma l’arrivo della ragazza di Waner svelerà la sua vera identità, e cioè quella del famigerato bandito Kid Blue. Piccola e dimenticabile commedia western diretta da James Frawley, la cui unica curiosità sta nel vedere Hopper, divenuto quasi intoccabile dopo la strada presa con The Last Movie, in coppia con un altro volto incredibile del cinema americano, quello di Warren Oates, l’eroe peckinpahiano per eccellenza. 1976: Mad Dog Morgan. Australia, 1850 circa. Daniel Morgan, personaggio realmente esistito, è uno dei tanti immigrati irlandesi scesi in Australia per cercare fortuna durante la febbre dell’oro. Il fato però non gli sorride e ben presto si ritrova dall’altra parte della legge, povero e disperato. Arrestato e condannato a dodici anni di lavori forzati in seguito alla sua prima rapina, in carcere è costretto a subire soprusi di ogni genere. Libero, giura vendetta contro il mondo. Con l’aiuto di un aborigeno, Morgan inizia una vita che lo porterà a diventare un eroe per alcuni ed un mostro per altri, una leggenda su cui pesa una taglia: Vivo o morto… Diretto da Phililppe Mora, autore di splendidi documentari e horror di serie z, Mad Dog Morgan è un raro esempio di western australiano. Dopo il calvario di The Last Movie, Hopper si rifugia nel suo ranch. Quelli a seguire sono anni di perdizione, tanto che arrivato al film di Mora, Hopper mancava dalle scene ormai da circa tre anni. Il produttore Jeremy Thomas, che qui debuttava e che in futuro sarebbe divenuto il produttore di Cronenberg e Bertolucci, in un’intervista ha dichiarato che il budget era limitatissimo e che i soldi venivano trovati settimana per settimana in corso di lavorazione; inoltre, gran parte della troupe era composta da persone con poca o nessuna esperienza. Cercando di rimanere fedele alla vera storia di Morgan, soprattutto con riferimento alle location e alla cronologia degli eventi, il film, che Hopper ha spesso ricordato come un’esperienza molto positiva, è divenuto negli anni un vero e proprio cult, soprattutto in patria. Girato in sei settimane, vinse il premio come miglior film al Western Festival, tenutosi a Cannes nel ’76. È impossibile vedere Mad Dog e la sua storia, messa in scena come fosse una ballata, senza pensare all’esperienza personale di Hopper, alla sua malinconia dovuta alla consapevolezza di aver perso un occasione, alla sua voglia di riscatto e di rivalsa, a quella follia. Personaggio e attore diventano un tutt’uno. A fine riprese, Hopper andò al cimitero dov’era seppellito Morgan e si bevve un’intera bottiglia di rum. Lo trovarono addormentato all’alba sulla tomba.Concludendo, anche se i western “puri” di Hopper sono solo un pugno, c’è qualcosa di quel mondo, in tutti i suoi personaggi; forse perché era cresciuto nel profondo sud o forse e soprattutto perché, come i “gringo” che popolavano il west, aveva vissuto esperienze talmente estreme da riuscire a leggergliele sul volto. Prolifico fino alla fine, Hopper è stato accusato di svendersi troppo facilmente, ma nel suo caso non è appropriato usare il termine “mercenario”, proprio perché il suo era un approccio artigianale, che nobilitava anche i progetti più mediocri e che probabilmente nasceva anche da un’esigenza più profonda, quella di non fermarsi mai, per paura di rimanere da solo con i propri demoni. “I’m not really a person that looks back on my life, because it wasn’t that pleasant to me. I have a lot of great memories, but I don’t go there, because there are really dark memories too.”
Insomma chi si è spento il 29 Maggio scorso, gracile, divorato dalla malattia, arrivando a pesare meno di 45 kg, era a tutti gli effetti un gigante e uno degli ultimi esemplari di una razza che onestamente è difficile pensare potrà un giorno rinascere. Hopper, con quegli occhi così tristi e dolci, l’ideale eroe di una ballata di Leonard Cohen ascoltata di notte, è divenuto, e forse non ce ne siamo ancora pienamente resi conto, un po’ leggenda. Ma se lui potesse leggere queste parole probabilmente direbbe: “I am just a middle-class farm boy from Dodge City…”
Eugenio Ercolani
Scritto da Eugenio Ercolani il gen 13 2012. Registrato sotto DUST, RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione