Su questo argomento l'opinione pubblica si spacca: se da un lato in molti vorrebbero detenuti autosufficienti che provvedono da sé alle spese del proprio mantenimento, dall'altro molti temono che trovare lavoro ai detenuti sposti risorse utili per trovare lavoro ad altre categorie (donne, giovani, disoccupati in genere) e creare una dannosa concorrenza al ribasso.
Divisa tra giustizialismo e senso di minaccia, questa visione dimentica alcuni punti fondamentali, primo fra tutti il fatto che il lavoro in carcere non è una misura accessoria alla pena, ma uno strumento affinché il condannato ritrovi la sua dignità e il suo posto nella collettività attraverso il proprio lavoro.
Certo, non ogni crimine permette un pena alleggerita o, meglio ancora, sostitutiva, ma è vero anche che moltissimi detenuti in Italia sono “dentro” per reati di lieve entità (spaccio, piccoli furti, vandalismo) per i quali una pena detentiva fa più male che bene – e il carcere diventa “scuola di crimine”, come dicono i penalisti.
Non a caso, in Italia, solo il 20% dei detenuti ha un lavoro, nonostante l'art. 27 della Costituzione indichi nel lavoro un valore centrale di riabilitazione e reinserimento.
Guardiamo, invece, a due carceri italiani “modello”, come esempio di corretta gestione dell'attività intramuraria: il carcere di Bollate e la Casa di Reclusione Femminile Venezia Giudecca.
Qua, dove la popolazione carceraria ha lavori per esprimersi e dare il proprio contributo, non solo si tengono uomini e donne lontani dalla delinquenza, ma si crea valore aggiunto. Si curano le piante in serra e ne si ricavano alimenti e prodotti cosmetici artigianali, si cura l'edizione di un periodico (come CarteBollate e Ristretti Orizzonti, per altro molto seguiti), si tiene un servizio di catering da 350 pasti al giorno, si riparano componenti elettroniche non solo, come testimoniano il Bollettino ADAPT ed il Rapporto dell'Associazione Antigone, perché le imprese ricevono incentivi e sgravi contributivi per avvalersi della manodopera carceraria, ma anche perché le capacità di queste persone possono ancora servire la collettività anche da una casa circondariale.
Fare impresa all'interno del carcere sta diventando un'opportunità da tenere in seria considerazione.
Ma nonostante i grandi passi avanti, resta sempre una domanda: perché investire nel lavoro di detenuti, quando la grande disoccupazione è “fuori”?
Domanda sbagliata: perché non coinvolgere chi è fuori nella rieducazione dei detenuti? Perché non investire affinché il lavoro dei molti volontari non diventi una professione retribuita? Già il fatto che i volontari siano una presenza costante nelle carceri italiane è segno che la questione non lascia indifferenti i nostri giovani. In questo potrebbero avere un ruolo chiave i Centri per l'impiego.
Un maggiore investimento su queste risorse umane, sarebbe forse troppo vantaggioso per essere vero: maggiore occupazione giovanile, programmi di reinserimento e di pena alternativa più efficienti, minore recidiva, minor spesa pubblica data dai minori oneri per le spese di carcerazione, più benessere per la collettività.
Certo, tutto ha un costo.
Bollare come irrecuperabili determinate situazioni, invece, è del tutto gratuito.