Depenalizzazione dell’aborto: polemiche, condanne ed ipocrisie

Creato il 05 maggio 2013 da Eldorado

La storia di una ragazza di 21 anni, ribattezzata Beatriz dai mezzi di comunicazione per mantenerne l’anonimato, sta dividendo in due l’opinione pubblica salvadoregna ed ha riportato alle cronache il dibattito sull’aborto terapeutico. Incinta di cinque mesi, la ragazza soffre di lupus, ipertensione arteriale, insufficienza renale e gestosi, mentre al feto è stata riscontrata una malformazione anencefalica, che ne comporterà la morte sicura al momento della nascita.

I medici hanno raccomandato da subito l’aborto per evitare un decorso fatale per la giovane paziente, scontrandosi però con la legge salvadoregna che vieta il procedimento anche solo per fini terapeutici. La ragazza rischia la morte, ma a distanza di settimane dall’allarme lanciato dai medici e nonostante il parere favorevole all’aborto per questo caso espresso dal Ministero della Salute e dal Procuratore Generale, il Ministero pubblico non ha risposto alle sollecitudini per permettere l’operazione.

La ragazza, infatti, se procedesse all’aborto senza la speciale autorizzazione sarebbe destinata a subire un processo legale e ad essere condannata per l’interruzione della gravidanza. La legge è durissima: la condanna può raggiungere anche i 30 anni di carcere. Un reato a cui verrebbe esposto anche il medico che praticherebbe l’operazione e che, oltre a vedersi condannato, verrebbe espulso dall’Ordine ed inibito dall’esercitare la professione per il resto dei suoi giorni.

Mentre le organizzazioni per i diritti umani clamano perché venga concesso il permesso speciale, la chiesa cattolica e quelle evangeliche hanno trovato un pretesto per fare fronte comune. La storia della ragazza –che, tra l’altro, è madre di un altro bambino che soffre di una seria patologia che gli impedisce di camminare- è, secondo le gerarchie religiose, solo una scusa per preparare il terreno per una campagna politica a favore dell’aborto. Enfatico a proposito l’arcivescovo di San Salvador, José Luis Escobar Alas, che ha escluso che la Chiesa cattolica possa ammettere anche solo in questo caso l’aborto ed ha ricordato che l’unica soluzione è quella di aver fede affinché la situazione possa risolversi spontaneamente.

Per le organizzazioni che ne difendono il diritto alla vita, quella della ragazza non è un’occasione per una campagna politica, ma solo una storia di povertà e di esclusione. Chi ne ha la possibilità, la classe dirigente e potente del Salvador, ha infatti i mezzi per eludere la legge e recarsi all’estero. Women’s Link Worldwide ricorda in un comunicato che ¨se la ragazza avesse i mezzi economici, tutto questo non le starebbe succedendo¨, in una dichiarazione che mette l’accento sull’ipocrisia della società salvadoregna.

L’aborto terapeutico è proibito non solo nel Salvador, ma anche in altri paesi della regione. In Nicaragua, la discussa legge giunse proprio in dirittura d’arrivo della campagna elettorale 2006, a consolidare uno scambio di favori tra il sandinismo orteguista e la Chiesa cattolica, in un patto che dura ancora oggi e che si rinnova sulla salute di decine di donne che rischiano la vita per portare a termine una gravidanza destinata a concludersi con la morte del nascituro. Stessa situazione si vive in Honduras, dove l’aborto terapeutico è un reato punito con sei anni di reclusione.

La legge, in questi tre paesi, ha avuto come risultato un aumento incontrollato degli aborti clandestini, che si applicano nella più completa mancanza di condizioni igieniche, nelle case di comadronas senza scrupoli e nell’abbandono fisico e psicologico della donna che, obbligatoriamente, deve sottoporsi a questa pratica. Lungi dall’essere trattato come un problema di salute pubblica, l’aborto terapeutico viene considerato alla stregua di un reato, che lascia profonde conseguenze psicologiche nelle donne che lo devono praticare e che si sentono trattate come delle comuni delinquenti. Di fronte alla severità della legge, aumentano i rischi ed i pericoli, ma spesso alle donne non resta altra scelta, visto che negli ospedali di Honduras, El Salvador e Nicaragua, i medici hanno l’obbligo di evitare ogni intervento, anche a rischio che la paziente muoia dissanguata e per altri tipi di complicazioni.

Intanto, nel Salvador la polemica è destinata a proseguire. Diverse organizzazioni e deputati dello stesso partito di governo, il Frente Farabundo Martí, espressione della sinistra, hanno chiesto al presidente Funes che il Paese si allinei agli accordi internazionali che, nel caso della salute pubblica, prevedono l’intervento medico nei casi di pericolo per la vita delle donne incinta. Un appello finora passato inascoltato; sia Mauricio Funes che Daniel Ortega in Nicaragua sembrano più propensi a mantenere i favori dell’elettorato cattolico piuttosto di soddisfare gli appelli internazionali ed il diritto alla salute pubblica delle proprie connazionali.

Articolo apparso in esclusiva sull’appzine L’Indro: http://www.lindro.it/


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