Anche se oggi l’argomento non riguarda direttamente l’Africa, di cui Jambo Africa si occupa strettamente e quotidianamente, proprio in virtù del fatto che abbiamo la pretesa dello scrivere, vale la pena di soffermarsi un attimo a riflettere sul contenuto forte e breve di un inedito del poeta Giovanni Giudici, di recente scomparso, pubblicato ieri su Domenica del Sole24Ore.
Scriveva Giudici nel settembre del lontano 1963 che l’insufficienza dei mezzi espressivi a nostra disposizione è soprattutto la nostra consuetudine con essi: e il nostro troppo folto vocabolario ci impedisce ormai di riconoscerle le parole. Sembrano tutte uguali.
E’ un po’-aggiungo io- come nella notte tutte le famose mucche hegeliane sono nere o come in una folla d’asiatici non siamo affatto in grado di distinguere un coreano da un giapponese o un cinese da un vietnamita.
In realtà- scriveva Giovanni Giudici – le parole non sono tutte uguali.
Siamo noi ormai quasi indistinguibili. E come le parole nemmeno i fatti della nostra vita riusciamo a distinguere: e questo sforzo che si compie (fare poesia) è semmai il tentativo di cogliere nei versi qualcosa di distinguibile delle parole e dei segni, qualcosa di distinguibile della vita.
Pensandoci bene certa ambizione di fare poesia (lo dico a me per prima che vi sono cascata quasi senza accorgermene) è una “cosa” troppo seria per essere alla portata di tutti. O quanto meno va praticata con professionalità e molta umiltà.
Perciò, nel mio essere “dilettante”, è perfetta la dicitura “quasi poesia”. Cioè solo tentativi di discernimento.
Nella vita e attraverso le “parole”.
E quelli vanno sempre bene. Per tutti. Me compresa.
Marianna Micheluzzi