(questa settimana, sul settimanale il futurista)
A Yenikapı, a Galata, a Üsküdar; nelle tekke diventate museo, negli spazi culturali, in una stazione ferroviaria, per strada a tiro di turista. Alberto Fabio Ambrosio ha visto danzare i dervisci – quasi in trance, la gonna bianca a fare la ruota – in ogni angolo di Istanbul, ma anche a Konya: la città del sufismo per eccellenza dove ha vissuto e oggi riposa Mevlana Rumi, venerato capostipite (più ispiratore carismatico che fondatore) dei mevlevi nel XIII secolo e celebre – grazie alla sua opera poetica e ai suoi insegnamenti spirituali – anche al di fuori dei confini del mondo islamico. Dervisci danzanti, dervisci rotanti. Padre Ambrosio è un domenicano e uno storico, uno dei massimi esperti italiani di sufismo: conferenziere in giro per l’Europa e docente universitario in Italia, autore di pregevoli saggi accademici e del recente Dervisci. Storia, antropologia, mistica (Carocci, 2011), un’introduzione divulgativa ma rigorosissima che ricostruisce le tappe – rituali e iniziatiche – del viaggio verso l’Assoluto (un viaggio di ritorno dell’anima, prigioniera nel corpo umano e anelante all’Uno) di Rumi e dei suoi seguaci lungo i secoli; ha quarant’anni e vive a Istanbul da otto, all’ombra della torre genovese di Galata – a pochi passi e proprio a metà strada tra il complesso conventuale di San Pietro e la confraternita (la prima tekke di Istanbul, eretta nel 1491) – mi ha raccontato del suo primo incontro col sufismo, un’ideale iniziazione venti anni fa: un libro di mistici, una spiaggia di ciottoli, il suono delle onde del mare. Ha ormai assistito a innumerevoli sema, la danza iniziatica: prima da osservatore solo attento ma distaccato poi anche ammirato e coinvolto, “arreso all’evidenza di una profondità spirituale, di uno spessore mistico che trascende la semplice coreografia”; e mi ha confessato che al momento di celebrare l’Eucarestia, aprendo le braccia, ha a volte “l’impressione di essere come i dervisci, di distribuire l’amore di Dio che viene dal cielo verso il prossimo e verso la creazione nella sua interezza”. Suggestioni e contaminazioni.
Ma non c’è da stupirsene. Il capitolo conclusivo di Dervisci spiega in modo convincente perché Rumi e la sua poesia mistica siano diventati fenomeni di massa e successi editoriali, nel mondo anglosassone sfociati in una vera e propria “Rumimania”: “sembra quasi che il nuovo volto accogliente dell’islam sia solo quello di Rumi e dei suoi discepoli danzanti”, osserva padre Ambrosio. Quella di Rumi è infatti una spiritualità aperta, diretta non solo agli immediati discepoli: e i suoi insegnamenti sono ancora oggi “un mezzo di elevazione spirituale per tutti i credenti al di là dell’appartenenza religiosa” (ai suoi funerali nel 1273 a Konya, ad esempio, parteciparono anche cristiani ed ebrei), frutto di un Islam a misura d’uomo ma fondato su di un teocentrismo talmente radicale da annullare le differenze. Tutto ritorna a Dio, che è senza possibilità di equivoci Allah: e nell’introduzione infatti il sufismo viene presentato come “quella parte dell’Islam che ha per vocazione un’iniziazione all’intimità con il Dio Unico della fede islamica” (il termine sufi suggerisce la povertà e deriva dal vestito di lana indossato). Mentre il derviscio è “un musulmano che conduce una vita di ricerca di profonda spiritualità accompagnata da forme più o meno pronunciate di mendicità”; è colui che bussa alla porta del convento per essere ammesso nell’ordine, che bussa alla porta di chi conosce per cercare la Verità. Bussa e gli viene aperto: viene lasciato in meditazione per tre giorni, se non desiste dal suo proposito gli viene dato l’abito e può iniziare la formazione – e cammino iniziatico – che dura mille e un giorno (çile), la perfezione del mille aumentata dell’uno che apre all’immensità e all’infinito.
I capitoli di Dervisci che parlano dei rituali dei mevlevi, dei conventi e delle arti, dei rituali e delle pratiche quotidiane, sono i più ricchi e suggestivi. Alberto Fabio Ambrosio ha però il grande merito di dare profondità storica alle vicende dell’ordine (il più conosciuto, ma non l’unico esistito): il primo periodo di istituzionalizzazione subito dopo la morte di Rumi, quello della graduale codificazione della vita conventuale e delle cerimonie, le varie fasi nei rapporti con il potere dei Sultani ottomani, l’espansione irresistibile in Anatolia e nelle province dell’Impero, l’avvicinamento al pensiero europeo e occidentale esoterico nel XIX secolo (massoneria compresa), la continuità assicurata per oltre otto secoli dai successori (çelebi) diretti discendenti di Rumi, lo scioglimento deciso nel 1925 con l’acquisizione da parte dello Stato di un ricchissimo patrimonio immobiliare e finanziario, il graduale recupero della tradizione in modo non sempre fedele e con qualche degenerazione commerciale. All’origine di questa storia, Rumi e poi Rumi e Shams: il derviscio di Tabriz che – con la sua determinante influenza – lo ha portato a enfatizzare la dimensione più direttamente spirituale; e l’opera poetica – il Mathnawi e il Canzoniere, in persiano (la sua lingua) – è infatti pregna di slanci spirituali e mistici: “Rumi sembra più preoccupato di tradurre un’esperienza con immagini in grado di toccare l’emotività piuttosto che con la facoltà raziocinante”, osserva padre Ambrosio. Il cammino iniziatico punta – dal principio – a “combattere contro la nefs, la passione smodata dell’uomo”, così da annientare i desideri nocivi; la formazione è curata soprattutto in cucina, dove avviene la trasformazione dei cibi e dell’aspirante mevlevi: che apprende le arti – poesia, calligrafia, musica, danza – in un ambiente esteticamente stimolante, che è chiamato a svolgere i lavori manuali – diciotto servizi – più umili. I dervisci hanno uno spiccato gusto estetico, ma le manifestazioni artistiche hanno una valenza direttamente spirituale; apprendono soprattutto l’adab, le regole fondamentali di vita e di coabitazione illustrate in numerosi manuali: “la morale dell’Islam realizzata nell’esercizio delle virtù e negli atteggiamenti del credente”. Il motto che meglio riassume il loro stile di vita è: “mangiar poco, dormir poco e parlare poco”. Misura e autocontrollo.
I dervisci dormono e parlano poco perché gran parte della loro giornata è dedicata alla preghiera e alla meditazione: alla ripetizione del nome di Dio (zikr), alla purificazione incessante attraverso la guida del proprio maestro (shaykh), all’annullamento in Dio che è una morte ascetica e iniziatica. Unicità assoluta di Dio e annullamento in Dio che vengono proposte persino nei loro abiti: il copricapo conico di feltro e color miele (sikke), che non ha pieghe perché Dio non è molteplice ma è Uno e simboleggia la pietra tombale (le steli funerarie sono infatti sormontate dal copricapo distintivo della persona); l’abito bianco (tennure) che simboleggia il sudario; mentre il mantello nero (hırka) designa la trasmissione della benedizione e del potere spirituale del Profeta. La formazione estetica e spirituale dei dervisci trova il suo più alto momento nel sema, la danza improntata alla circolarità che è anche indicazione visiva – nella posizione assunta all’interno della sala – della gerarchia iniziatica. Si svolge nella semahane, l’ambiente centrale – per posizione e importanza – del convento: di forma circolare o ottagonale, sormontato da una cupola. I danzatori girano su sé stessi ripetendo il nome di Dio, accompagnati da musicisti che riproducono il suono delle sfere celesti e che nel movimento finale lasciano posto al silenzio; assumono con le palme delle mani – una verso l’alto, una verso il basso – la forma delle lettere arabe lam e mim, la negazione nella professione di fede islamica la ilah illah Allah (non c’è altro Dio all’infuori di Dio). Tutto torna a Dio, che è amore e passione, amore-passione (aşk, come il titolo – in turco – del fortunato romanzo di Elif Şafak dedicato a Rumi); l’annientamento in Dio, la cancellazione delle passioni (fena).
Alberto Fabio Ambrosio esprime invece scetticismo per tutto ciò che ha preso il posto delle vere e proprie confraternite mevlevi dopo il loro scioglimento nel 1925: “sotto le spoglie di associazioni culturali, fondazioni o semplici gruppi, più che la realtà stessa dell’antica confraternita, ne sopravvive il ricordo”. Niente piena dignità, quindi: anche se esistono maestri e discepoli fedeli all’adab e portatori vivi degli insegnamenti di Rumi; sono conosciuti, sono rispettati. In Turchia, il revival è travolgente; ha avuto inizio nel 1973, nell’ottocentesimo anniversario della morte di Rumi: quando l’Unesco gli dedicò un intero anno di celebrazioni e di eventi e ne promosse la visibilità e la conoscenza a livello mondiale. La stessa Unesco, nel 2007, ha inserito il sema nella lista del patrimonio immateriale dell’umanità; e Konya attrae pellegrini e visitatori in numero sempre crescente: tanto che è stato costruito un centro culturale con semahane all’aperto per migliaia di persone; e le celebrazioni del şeb-i arus tra il 16 e il 17 dicembre, la morte terrena di Rumi che è matrimonio spirituale con Dio, sono state trasformate in un festival di dieci giorni, a cui partecipano le massime autorità politiche del paese e a cui vengono invitati dignitari stranieri. Al di là dello sfruttamento brutalmente commerciale nei caffè per turisti di Sultanahmet, a Istanbul il sema è un evento curato da fondazioni che rivaleggiano per l’attenzione dei media e degli spettatori: soprattutto nella mevlevihane di Galata, trasformata in museo dopo il 1925 e riaperta recentemente dopo cospicui lavori di restauro, domenica pomeriggio e a pagamento; in quella di Yenikapı, in cui si sono concentrate le attività – anche concerti e conferenze – dedicate ai mevlevi durante “Istanbul 2010 capitale europea della cultura”, oggi solo l’ultimo venerdì del mese (l’ingresso è gratuito); infine in quella di Silivrikapı, che ogni giovedì sera – ma a pagamento – offre anche una conversazione introduttiva con uno shaykh. Spiritualità non proprio disinteressata.