“…Destinazione Italia è un living document…”. Non direi, è, piuttosto, il certificato di morte dell’Italia. Un necrologio che annuncia la fine di questo povero paese svillaneggiato da una classe politica senza contegno e ritegno. Destinazione Italia è l’eutanasia di questa sventurata patria che nemmeno dinanzi alla fossa riesce ad essere se stessa, che rinnega la sua cultura e le sue tradizioni, imprimendo il suo epitaffio in inglese.
Chi, tra gli esperti ingaggiati dal governo, ha scritto che Destinazione Italia “tratta dell’articolazione di una politica coerente, che è più di una serie di interventi normativi specifici, di “policy making” che va oltre ed è più ampio del “law making”, meriterebbe di chiudere la sua carriera per soffocamento a causa di un anglicismo andatogli di traverso.
I laureati nostrani della globalizzazione se ne fregano degli italiani e sproloquiano in lingua straniera, per dissimulare indescrivibili menzogne dietro esotici paraventi linguistici che sono la massima espressione di un becero servilismo esterofilo da smobilitazione del cervello.
Costoro sono interessati unicamente agli investitori esteri, agli anglo sciacalli invitati al banchetto dei tesori pubblici dai quali riceveranno solo gli avanzi per garantirsi una misera sopravvivenza corporativa tra le macerie generali. Destinazione Italia è il loro menu turistico a prezzo stracciato, eat-alia da spolpare e digerire, l’Italia “Usa e incetta” che piace a questi ignobili camerieri travestiti da gruppo dirigente. Dovrebbero vergognarsi ed, invece, vanno fieri del loro tradimento.
Destinazione Italia permetterà “di lasciarsi alle spalle i pregiudizi e le semplificazioni con cui il tema dell’attrazione degli investimenti è spesso trattato e di non farsi contagiare da due sindromi contrapposte. Da un lato la “sindrome dell’outlet”, per cui attrarre investimenti significherebbe “svendere allo straniero per fare cassa”. È vero il contrario. In un mondo globalizzato, “attrazione di investimenti” significa crescita ed è l’opposto di delocalizzazione: per non far fuggire all’estero il Made in Italy, si deve far entrare il mondo in Italia. L’altra sindrome da combattere è quella di “Fort Apache”, che spinge a dire “siamo in declino, alziamo muri per chiuderci e difendere così quello che ci resta”. In realtà le condizioni e le misure necessarie per trattenere in Italia gli investimenti, anche italiani, sono le stesse che servono per attrarne di nuovi dall’estero”.
Le sindromi dell’outlet e di “Fort Apache” non sono niente rispetto a quella da shopping compulsivo dei loro referenti mondiali e all’altra, da Alice nel paese delle meraviglie, di cui soffrono i membri di questo Gabinetto che chiamiamo così per olezzo e disprezzo.
Le ricette proposte nel suddetto programma, elaborato dall’Esecutivo Letta, sono quanto di peggio potesse essere cucinato per far saltare il Paese dalla padella della crisi alla brace del default. Si avanza la rinuncia alla gestione diretta degli assetti strategici nazionali, nei comparti all’avanguardia, con il pretesto di valorizzare e modernizzare tali settori, grazie all’intervento del capitale privato. Abbiamo avuto già in passato un saggio di quel che non sanno fare i capitani coraggiosi del capitalismo privato nostrano e i loro padrini d’oltre confine. Peraltro, come possa un mero cambiamento giuridico nella forma proprietaria far fare un balzo in avanti ad imprese pubbliche che sono da decenni, nell’attuale configurazione, un fiore all’occhiello nazionale (vedi Eni o Finmeccanica) non è dato saperlo.
In cambio, sappiamo che “un ruolo rilevante in tutto il processo sarà assunto dal Comitato Permanente di Consulenza Globale e di Garanzia (c.d. Comitato Privatizzazioni)”. Chissà che la prima riunione di quest’organo dal nome altisonante ma dai bassi istinti non si tenga di nuovo sul panfilo Britannia, lo Yacht reale che nel ’92 ospitò banchieri, finanzieri, grand commis d’etat, italiani e forestieri, i quali decisero a tavolino lo smembramento delle conglomerate pubbliche e la liquidazione dei gioielli industriali italiani. Bastò una crociera di pochi potenti per crocifiggere un popolo intero. Marx diceva che la storia si ripete due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Evidentemente, costui non conosceva l’Italia dove esiste soltanto il presente di una tragicommedia infinita.