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Cinema archetipico allo stato puro dal DNA visceralmente classico, film che racconta il declino delle cose dell'uomo, ma non dell'uomo.
"All is Lost" è un'opera straordinaria fin dalle prime battute perché, perfino nella tempesta, riesce a essere così profondamente (moralmente, direi) antiretorica e antihollywoodiana.
Il film di Chandor agisce come collirio per occhi abituati allo spettacolo del mondo piuttosto che all'intimità dell'uomo, al suo annientarsi parossistico piuttosto che al suo incedere solitario. Qui non c'è nessun'operazione survivor decantata con far spettacolare, c'è solo un vecchio lontano dagli occhi del mondo, rispettato dalla mdp che non vuole mai sovrapporsi a lui, ma cerca, più semplicemente, di guardare da vicino.
Ancora una volta, per l'appunto, il vecchio e il mare, un solo individuo nel bel mezzo dell'oceano, quello stesso oceano che restituisce tutta l'immensità, la paura dell'ignoto, la dimensione di finitudine, l'idea di sublime che un singolo prova in mezzo agli abissi: timori e tremori lontani eppure rintracciabili nel cuore di ogni uomo, sensazioni che superano il tempo, perché esistono prima della civiltà (e rimarranno anche dopo). In questa dimensione di solitudine estrema "All is Lost" rammemora un uomo che è insieme il primo e l'ultimo, e il desiderio estremo, vitale, di riuscire a permanere, di lasciare una traccia nel fluire incessante e indifferente della natura (una voce naviga l'oceano: le parole son pronunciate nella speranza che ci sia qualcuno a sentirle. Mai come qui parlare ha il significato d'invocare).
L'asse portante del film è il volto ruvido di Robert Redford, uomo d'altri tempi con la sua espressione contrita, le sue mani segnate dall'età, la sua capacità di possedere, dominare gli oggetti, recuperando una manualità che il mondo avevo dimenticato. Del suo personaggio non sappiamo assolutamente nulla, ma non ha nessuna importanza, perché lui è l'uomo, quell'uomo che conosciamo da una vita, quell'uomo che è, insieme, tutti gli uomini: non ci sono misteri o ambiguità perché, svuotato di qualsiasi sovrastruttura, rimane solo il basico istinto di sopravvivenza.
E mentre le cose materiali sono destinate ad affondare diviene chiara l'allusione al destino dell'uomo contemporaneo (del cosiddetto post-umano): la tecnologia, la circolazione extracorporea, la macchina, sono le prime cose che scivolano verso il fondo dell'oceano. Seguono la cultura, i libri, gli oggetti: di fronte alla violenza della natura non ci sarà nessuna tecnologia a salvarci, ma solo l'uomo, le sue mani, i suoi occhi, il suo istinto.
Si finisce il film rendendosi conto di aver assistitito a un'ora e mezza di cinema rigorosissimo: non c'è nulla fuori posto, nessun virtuosismo, nessun movimento di macchina spiacevole o troppo visibile, nessuna ridondanza, nessun sentimentalismo, perfino la colonna sonora è estremamente sobria e non soffoca mai l'immagine, sebbene si conceda a scorci poetici che infiammano lo schermo in mezzo al caos della tempesta. E, dopo aver visto un finale di struggente bellezza (ancora una volta archetipica), il cuore è riempito di gioia nel ritrovare un cinema così teneramente, saldamente umano, in grado di credere ancora nell'uomo e nelle sue potenzialità.
Film su un'altra fine del mondo che sarebbe bello vedere insieme a "Gravity", perché "All is Lost" non gravita ma sente tutto il peso dell'individuo e della materia, ma è questo stesso peso a porlo come ancora di resistenza (e salvataggio) in un mondo che si è fatto sempre più invisibile e immateriale.
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