Angela Merkel, Nicholas Sarkozy e Mario Monti
Se c'è un importante insegnamento che la crisi internazionale sta imprimendo a fuoco nella mente dei politici e dei cittadini italiani e non solo, è che uno degli elementi fondanti dell'assetto politico e giuridico europeo sta svelando tutta la propria inadeguatezza: il concetto di stato nazionale.
Persino le più importanti economie del Vecchio Continente - Germania, Francia - si ritrovano in difficoltà nell'affrontare la crisi con misure che nascono e muoiono all'interno dei confini nazionali. Sicuramente contribuiscono molto a questa inadeguatezza l'eterno guado politico in cui l'Europa si trova ormai da una generazione, la cessione della sovranità economica dalle nazioni alla UE, la paradossale evanescenza e farraginosità delle istituzioni europee, la generale lontananza di Bruxelles dal territorio, la difficoltà con cui le decisioni prese a livello comunitario diventino poi attuative nei singoli Paesi. La prova forse più evidente di questo fenomeno sono proprio le campagne elettorali per le elezioni europee, vissute più come referendum sui governi nazionali che sulla concreta presentazione di programmi di stampo comunitario.
L'Europa affronta quindi la crisi nel proprio assetto politico peggiore: da un lato non esiste una forma di governo comunitario in grado di coordinare efficacemente gli stati nazionali, dall'altro tuttavia questi ultimi hanno ceduto alla UE importanti leve politiche per il controllo della propria economia.
Alcuni ambienti vedono l'unica via di uscita nello smembramento della UE e nel ritorno agli stati-nazione di concezione novecentesca; se questa soluzione nel breve termine potrebbe anche essere un miglioramento rispetto allo stallo attuale in quanto restituirebbe alle amministrazioni nazionali alcuni utili strumenti per combattere gli effetti più nefasti della crisi, dall'altro non mette al sicuro lo sviluppo e la crescita del continente sul lungo termine. È evidente che i nuovi attori dell'economia mondiale ragionano su scale completamente differenti rispetto a quelle deli Stati europei: India, Cina, Brasile, Russia possiedono risorse in termini di forza lavoro, produzione agricola ed energetica e materie prime che nessuno stato europeo può sperare di eguagliare; una volta colmato il gap tecnologico che ancora, come un cuscinetto, rende superiore l'industria del Vecchio Continente, è evidente che sarà impossibile resistere all'onda d'urto generata dalla maturazione dei Paesi oggi in via di sviluppo.
La necessità di pensare in dimensione europea è quindi impellente, e l'uscita dall'attuale impasse istituzionale non può che risolversi con un rafforzamento ed una maggiore coordinazione delle istituzioni comunitarie, ma proprio per questo richiede dall'attuale classe politica la capacità di formulare pensieri e programmi di respiro sovranazionale, di disegnare non già la Francia, la Spagna, l'Italia del futuro, bensì l'Europa del futuro.
Storicamente la sinistra - dal Proletari di tutti i paesi, unitevi! di Marx ed Engels - ha da sempre avuto una maggiore attenzione all'internazionalismo nella formulazione delle proprie ideologie e delle proprie proposte politiche; uno degli esempi più eclatanti furono forse i disperati e inascoltati appelli alla vigilia della Prima Guerra Mondiale lanciati dai partiti socialisti e comunisti europei contro il conflitto, affinché non vi fosse un proletariato tedesco, uno austriaco, uno russo, uno francese e via dicendo.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, tuttavia, e a maggior ragione negli ultimi vent'anni, sono state le destre ad essersi rese la forza propulsiva delle maggiori costruzioni sovranazionali, dalla NATO alla stessa UE, per quanto le formazioni e l'influenza delle forze progressiste non possa in alcun modo essere dimenticata o ridotta a dimensioni trascurabili. Dopo la caduta del muro di Berlino e la difficoltà accusata da molti partiti di sinistra di ridefinire le proprie ragioni di esistenza è diventato ancora più difficile trovare la necessaria coesione di intenti necessaria alla definizione di una vera strategia politia europea: dal modello socialdemocratico scandinavo, alla terza via di Blair, all'Ulivo prodiano fino ai recenti nazionalismi di sinistra dell'Europa orientale si è piuttosto assistito ad una serie di tentativi disorganici di reinventare il progressismo senza tuttavia arrivare a quella massa critica di consenso necessaria a realizzare l'unione delle sinistre europee sotto una bandiera comune.
D'altro canto, il centrodestra - salvo derive nazionalpopolari mitteleuropee - pare oggi allineato su posizioni piuttosto simili tra loro: i programmi di Cameron, Sarkozy, Merkel, Rajoy e dello stesso Monti presentano infatti troppe affinità perché si possa trattare di una mera coincidenza.
Grazie anche alle posizioni di governo nelle cinque maggiori economie dell'Unione Europea, la destra sta attuando un disegno di integrazione sociale ed economica - naturalmente secondo i propri valori e le proprie priorità - senza precedenti nella storia del continente, dando forse per la prima volta un senso alle parole "politica europea".
In quest'ottica, il forte sostegno politico ed elettorale reciproco tra i principali leader del centrodestra europeo va letto nell'ottica della realizzazione di una politica comune. Lo sponsor diretto di Angela Merkel nella campagna elettorale di Sarkozy, il sostegno verso Monti e Rayoj sono tasselli di un puzzle di politica europea in cui la destra riesce a muoversi a proprio agio ormai da tempo.
L'asimmetria con la sinistra è evidente. Esclusa la breve parentesi dell'Ulivo prodiano e della Terza Via blairiana non si è mai assistito ad una vera unità di intenti tra i principali partiti di centrosinistra e di sinistra dei vari paesi europei, complice appunto la grande diversità ideologica di tali formazioni tra uno stato e l'altro - che impedisce persino, come nel caso del PD, la costruzione di uno schieramento unitario a Strasburgo - che si traduce nell'incapacità di una visione organizzata dell'Europa nel suo complesso e nell'assenza di un progetto collettivo a livello comunitario.Solo negli ultimi tempi sono iniziati effettivi contatti tra i leader dei tre principali partiti del centrosinistra europeo, Gabriel, Hollande e Bersani, per la definizione di strategie comuni. Si tratta tuttavia ancora di resoconti troppo sommari, nebulosi e lontani dalla politica reale, ma soprattutto troppo fragili: una sconfitta di Hollande alle prossime presidenziali francesi ne comporterebbe inevitabilmente l'arresto, in quanto difficilmente Bersani e Gabriel vorrebbero legare la propria immagine ad un candidato sconfitto.
La destra, sposando le posizioni tecnocratiche della BCE, è riuscita da un lato a trovare unità di intenti a livello comunitario, e dall'altro ad ammantare di autirutà la propria proposta politica ed ideologica. La sinistra ha un immenso gap da colmare, che ancora una volta riporta al vuoto filosofico successivo alla caduta del Muro di Berlino. Il compito pare titanico e la lotta impari, eppure le forze progressiste devono essere conscie che è ormai su questo scacchiere che si arriverà a decidere del futuro dell'Europa e di tutti suoi Paesi. Farsi trovare impreparati è inaccettabile.