Nata alla vigilia della Rivoluzione Francese, quando, agli Stati Generali del maggio 1789 convocati da Luigi XVI, il Terzo Stato si divise tra i conservatori (che presero posto alla destra del presidente dell’assemblea) e i radicali (che si sistemarono a sinistra), la distinzione tra destra e sinistra venne confermata nell’Assemblea Nazionale rivoluzionaria e anche durante la Restaurazione, affermandosi successivamente tra le nascenti democrazie occidentali come chiara linea di demarcazione tra i rappresentanti dei ceti più abbienti e delle ideologie elitarie e i fautori delle istanze popolari ed egalitarie. Il suffragio universale ha creato una zona d’ombra nella contrapposizione destra-sinistra, in quanto la necessità di un consenso generalizzato per ambire legittimamente al governo dello Stato ha di fatto portato le diverse posizioni politiche a doversi aprire alla trasversalità, dovendosi interessare per forza di cose ad istanze non consustanziali alle loro rispettive ragioni originarie.
D’altra parte, l’economia dominata dalla grande industria ha consentito a questa dicotomia di reggere e di ritrovarsi ben rappresentata nel rapporto conflittuale tra capitalisti e operai; questi ultimi, potendo far pesare il loro numero in prospettiva elettorale, hanno rappresentato il principale bacino di voti per la sinistra, consentendole di arrivare al governo con regolarità, in buona parte delle democrazie occidentali. Questa regolarità (ma anche il peso dei comunisti italiani, mai maggioranza nel paese, ma comunque in grado di condizionare la politica democristiana e di vincere battaglie politiche importanti, sia parlamentari che referendarie) ha trasformato diversi valori tradizionalmente considerati di sinistra in patrimonio comune delle democrazie liberali. Lo specifico storico della Guerra fredda ha portato a una cristalizzazione manichea della contrapposizione tra destra e sinistra, fossilizzandola ideologicamente; al contempo, anch’essa ha creato zone d’ambiguità, in particolare per quanto riguarda le tematiche legate al pacifismo e all’anti-militarismo, alla partecipazione democratica e ai diritti della cittadinanza, tradizionalmente affrontate dalla sinistra, che hanno dovuto giocoforza passare in secondo piano, per non cadere in contraddizione con la politica del blocco di riferimento (questo almeno fino agli anni settanta).
Il collasso dell’Urss e lo spostamento di molti lavoratori da settori compatti e facilmente coinvolgibili nella lotta di classe (operai, minatori, braccianti) al proteiforme e ondivago terziario, unitamente all’esplosione della mediatizzazione della politica, hanno portato a una progressiva dilatazione della zona di ambiguità tra le opposte posizioni, tanto da doversi interrogare se una tale contrapposizione sia ancora valida o da considerarsi anacronistica. A mio parere, la distinzione tra destra e sinistra mantiene tutte le ragioni per persistere unicamente nella sensibilità individuale dei cittadini, come punto di riferimento per la propria personale visione e interpretazione del mondo. Ciò che mi pare condannato alla marginalizzazione progressiva è la prospettiva di portare avanti una politica incisiva, partendo dalla base dell’appartenenza comune a un tradizionale posizionamento politico. Piuttosto, sulla base di determinati valori riferibili a una determinata tradizione, ma entrati nel sentire comune della cittadinanza, rimane possibile portare avanti la lotta per l’affermazione della giustizia sociale e dell’efficienza democratica, anche sotto forma di politica istituzionale, non più cercando l’amalgana nell’appartenenza a una tradizione, ma nella capacità di legittimarsi come espressione della cittadinanza.