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Detachment: quel distacco necessario per sopravvivere

Creato il 21 giugno 2012 da Masedomani @ma_se_domani

Detachment: quel distacco necessario per sopravvivere

Pellicola inaspettata, locandina corredata da commenti folgoranti, argomento gettonato a cadenza regolare, cast da premio Oscar. Corsa al posto in una sala gremita per vedere un film che in ogni festival in cui si è presentato ha lasciato la concorrenza a bocca asciutta. Ma cos’ha di così particolare “Detachment”? Di primo acchito nulla, anzi vi è il timore che una storia incentrata sul sistema scolastico statunitense possa creare un distacco tra noi in sala (europei) e loro sullo schermo (americanissimi). I minuti scorrono, la curiosità aumenta, la trama si svolge rapida e noi ci ritroviamo sempre più dentro quello schermo che guardavamo con circospezione sino a qualche minuto prima.

Noi, figli degli anni ‘70, abbiamo fallito, siamo non-persone che hanno offerto una non-vita alle generazioni a venire. Da un lato vediamo dei giovani senza speranze, la cui assenza di futuro è attribuibile alle famiglie disfunzionali ed alla costante assenza di stimoli, dall’altro vi sono genitori improvvisati, troppo assorbiti dalla ricerca della propria emancipazione per poter crescere una creatura. E la tanto bistratta scuola non ha alcuna responsabilità? La sua funzione pare destinata all’estinzione, insegnati e assistenti sono abbandonati a loro stessi e paiono moderni Don Chisciotte: senza un gioco di squadra dentro e fuori l’edificio, senza la sintonizzazione sulla medesima lunghezza d’onda, il fallimento è pressoché assicurato.

Detachment: quel distacco necessario per sopravvivere

Adrien Brody è Henry Barthes, la personificazione della disperata presa di coscienza che sia troppo tardi. Un insegnate che un giorno si ritrova in una scuola, di un quartiere neppure tanto terribile, circondato da adolescenti che cercano, utilizzando la strafottenza, di essere visibili ed ottenere un aiuto che non sanno talvolta neppure chiedere. Ma lui, supplente di professione, è a sua volta un gran casino: distaccato, solo e incapace di legarsi e condividere le emozioni, però è lucido e il suo percorso è l’unica cosa che, pur non mostrandoci la via, ci lascia una piccola speranza.

Gli sberloni, che con disarmante semplicità il film ci tira, toccano tutto ciò che ci contraddistingue come esseri umani senzienti e potenzialmente superiori: ci si deve prendere cura dell’altro (da sé), non è normale dimenticarlo o pretendere che cresca da solo; stimolare e comunicare dei valori non è mai fuori moda;  le umane  priorità devono sempre essere riconoscibili; ma soprattutto il rispetto per sé stessi e per gli altri, cosa che ci fa essere uomini non deve mai mancare. Avere uno scopo da raggiungere con un pizzico di orgogliosa ambizione, costruttiva e che ci conduca alla soddisfazione è necessario, perché i dolori, i problemi dell’uomo sono  e saranno sempre i medesimi. Shakespeare, Leopardi, Poe sono solo persone che in epoche diverse hanno provato le stesse nostre inquietudini con una differenza: oggi viviamo spesso alla giornata, con fasulli obiettivi perché meno doloroso che guardarsi allo specchio.

Detachment: quel distacco necessario per sopravvivere

 Confermo, “Detachment” è un film americano, per gli americani, che riesce però a travolgere un pubblico che dista un oceano. Da un lato fotografa una realtà differente dalla nostra, dall’altro impone allo spettatore un insolito e spiazzante mea culpa da parte di una generazione abituata a negare sempre tutto, il cui sport è mentire a sé stessa pur di non vedere ed affrontare la tristezza con cui convive senza mai reagire. A questo giro l’happy ending manca del tutto e il film di Tony Kaye è davvero un gioiello!


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