di Geoff Dyer
Due anni fa, a Londra, mia moglie e io ricevemmo una lettera dai vicini a proposito delle auto che sfrecciavano nella nostra strada. Preoccupati che un bambino o un ciclista fossero uccisi, speravano di raccogliere firme per fare installare segnali di pericolo o dossi artificiali. Nella mia risposta, mi trattenni dal rimarcare che l’alleanza fra le possibili vittime – bambini e ciclisti – era sostanzialmente fragile perché come ciclista ero messo a rischio soprattutto dai genitori che accompagnavano in auto i bambini da e per la scuola privata in fondo alla strada: un nido di privilegi dove a volte il personale apriva la portiera a questi ragazzi, dando loro un primo assaggio di un futuro di dignitari in visita. (Mi trattengo dal lamentarmi di questo con il personale; sono entrato nella fase in cui il trattenermi corona il lavoro di una vita). Anche se condividevo le loro preoccupazioni, scrissi, non potevo appoggiare la proposta. Avrei comunque (“comunque” non era solo un avverbio, era anche una didascalia che indicava che l’autore stava per salire sul suo alto cavallo) “sottoscritto una campagna per promuovere la completa eliminazione delle auto dalla nostra strada e la rimozione di tutti i posti di parcheggio, inclusi quelli per i residenti”. Non ho idea di cosa abbiano fatto gli autori della petizione di questo piano utopistico. Non risposero al radicale antiquato per cui non avere un’auto è una tale questione di onore civico che è sempre sull’orlo di avvertire gli amici che vivono nel quartiere che l’amicizia terminerà se insisteranno a recarsi in auto ai campi da tennis locali, mettendo a rischio se stessi e inquinando il mondo. Ma poi offrono passaggi, a mia moglie e a me, a feste esclusive in parti irraggiungibili di Londra (alle quali altrimenti non saremmo stati invitati) e io mi sento mosso a dare loro un’altra opportunità. Ma gli ideali di anti-automobilista militante restano inviolabili. Perché continuare a essere offeso da quel deficiente di Jeremy Clarkson se l’omicidio selettivo è un dovere dello Stato?
I miei motivi non sono solo ambientali. Non sopporto lo sbattimento e la spesa di possedere un’auto. Per la spesa, è colpa di mio padre. Un taccagno spaventoso (“pelerebbe un pezzo di cacca per sei pence”, osservava con ragione mio zio Daryl), dipingeva anche una modesta escursione – a un pub di provincia per mangiare pollo e patatine – come uno sperpero, conteggiando non solo il costo della benzina ma anche il consumo dei pneumatici e delle luci dei freni.
Quindi com’è successo che sono finito a vivere nella dannata Los Angeles, la città delle auto se ce n’è una, famosa per le autostrade e per l’inadeguatezza del trasporto pubblico? La spiegazione pratica è che sono qui a causa del lavoro di mia moglie, ma la spiegazione più profonda è che sono qui per comprendere i miei errori. Abbiamo comprato una Prius usata – che all’opposto dell’astronave Tardis del dottor Who, che era piccola fuori e grande dentro, combina stranamente la massa esterna con zero spazio per le gambe – e provate a indovinare? Dopo sei mesi di vita motorizzata, vedo ora che la mia posizione precedente era fondamentalmente carente – perché troppo moderata. L’ipocrisia ha aggiunto benzina al fuoco della guerra santa alle auto, che arde più fiero che mai.
Viviamo a Venice, all’estremo ovest della città, un quartiere per i ciclisti e i pedoni. È splendido – fin quando non vuoi raggiungere qualunque altro posto a LA, cosa impossibile. E viceversa. Amici che vivono nel quartiere esclusivo di Silver Lake – un estenuante viaggio di tre giorni a est – ci raggiunsero in auto per cenare da noi la nostra prima settimana in città, chiarendo che era una cortesia di benvenuto, che non si sarebbe ripetuta mai più.
Come può la gente vivere così, spendendo tanta parte della sua vita nel traffico? Beh, ascoltando gli audiolibri, telefonando e concludendo affari. Mentre guida, in effetti, fa tutto tranne guidare. Le strade, come risultato, sono incredibilmente pericolose. Ogni volta che ti avventuri fuori sfiori collisioni multiple perché i tuoi colleghi automobilisti stanno contemporaneamente messaggiando, telefonando, truccandosi e consultando gli ultimi aggiornamenti di Waze, la app con la mappa interattiva del traffico da cui ognuno necessariamente dipende.
Non occorre dire che tutto questo guidare pesa sulle risorse del pianeta ma, soprattutto, su un ecosistema vulnerabile, il portafoglio del signor Dyer. Considerate il servizio di parcheggio, l’istituzione che lubrifica il motore dell’economia di Los Angeles. Siccome non sopporto di lasciarci dei soldi, siamo condannati al purgatorio automobilistico di cercare un posto libero. Mia moglie è un’abile parcheggiatrice. Può infilare un auto nel culo di un topo ma c’è anche il dilemma categorico di decidere se in un certo momento un posto libero è davvero un posto libero. Le indicazioni offerte dal groviglio di segnali sono complesse, spesso contraddittorie. E il mero fatto che esista un posto libero significa, logicamente, che non è libero: se lo fosse qualcun altro lo avrebbe preso.
Naturalmente è possibile circolare a LA senza auto. Richard Rayner, l’autore di Los Angeles senza una mappa, venne qui negli anni ottanta e non ha ancora imparato a guidare. A paragone dell’ostinata determinazione di Rayner ad andare a piedi, le mie proteste lagnose e inconseguenti sono un inno alla futilità: ripeto che l’auto è sempre sporca e mi partono attacchi di rabbia – indotti dallo stress e dalle spese – ogni volta che andiamo da qualche parte (cioè mai). Il traffico è terribile ma la cosa davvero terribile è che non è più terribile a LA di quanto sia altrove, perché i paesi in via di sviluppo seguono l’Occidente lungo la strada rovinosa della libertà di motorizzazione individuale. Mentre cuocevamo in una moderatamente intasata Jaipur, all’inizio di quest’anno, la storica Maya Jasanoff ci spiegava che il traffico a Dhaka la faceva uscire di senno. Dicendola come in Catch 22: l’unica reazione possibile nel traffico di chi è sano di mente è impazzire. Sedere nel traffico è il perfetto emblema di una vita sprecata.
Quindi è stata una gioia andare a San Francisco la settimana scorsa per alcune presentazioni di libri. Il mio editore aveva prenotato una limousine. Cancellala, gli ho detto. Ok, prendi i taxi e conserva le ricevute, mi hanno detto. Non occorre, userò i trasporti pubblici. Questo è l’effetto più grande di vivere a LA: tramutare il trasporto di massa in un privilegio e una delizia. Il mio soggiorno a SF si è concluso prendendo il BART (Bay Area Rapid Transit) per cenare a casa di un amico a Oakland. Poi ho preso il treno per tornare in albergo, ubriaco e stordito, rileggendo Sulla strada senza l’ombra di un’auto.
Articolo originale (The Guardian). Tradotto per diletto e come esercizio di inglese. Geoff Dyer è un romanziere e un critico inglese. Il suo prossimo libro si intitola Da dove veniamo, cosa siamo, dove stiamo andando.
Archiviato in:traduzioni