Se credete che in questo post vi parlerò di automobili, ahimè, vi deluderò ancora, tanto più che non ho per nulla intenzione di insozzare col grasso da motore il mio Castiglioni-Mariotti, da me custodito in un apposito reliquiario sotto teca di vetro con temperatura e livello di umidità regolati tipo la rosa de La bella e la bestia. La locuzione latina di cui ho deciso di occuparmi ‘sta volta è un calco di quella greca ἀπὸ μηχανῆς θεός (apò mechanès theòs), che nasce come termine tecnico del linguaggio teatrale e significa letteralmente ‘dio (che scende) dalla macchina’, intesa come ‘marchingegno’. Se dunque questa μηχανή o machina non è una di quelle reclamizzate dalle simpatiche signorine di Easy Driver che mi tengono compagnia il sabato pomeriggio su RAI 1 mentre il mio esofago celebra il trionfo di reflussi dei Long Island della sera precedente, che diamine è? Trattasi di un aggeggio scenico già in uso nel teatro greco, costituito da una base verticale e da un braccio mobile a essa perpendicolare e posto alla sua sommità. Traduzione: una gru. Tramite un rudimentale sistema di argani e cavi essa consentiva di sollevare l’attore dal palco fino a depositarlo, ad esempio, sul tetto dell’edificio che c’era sullo sfondo della scena. Qui uno schema essenziale sul funzionamento di tutto ‘sto ambaradam.
Ed ecco una pallida ricostruzione di cosa vi aspettavate dopo aver letto la mia contenuta descrizione:
Non si sa quando questo meccanismo sia stato introdotto, tuttavia possediamo diversi drammi in cui il suo impiego è attestato, uno su tutti la Medea di Euripide (485 – 407 a.C.): l’omonima protagonista, donnammerda ante litteram, piantata dal compagno Giasone per un’altra, pensa bene di vendicarsi ammazzando la nuova fidanzata del suo ex (Creusa), il padre della suddetta (Creonte) e i figli che lei stessa ebbe da lui. La tragedia si chiude con Medea trionfante (?) che con i cadaveri dei figli si libra in cielo sul carro alato del Sole sostenuto dalla machina, roba che Avatar vatti a nascondere. Visto che anche l’occhio vuole la sua parte noi gliela diamo: questo mito, infatti, è meravigliosamente rappresentato in forma plastica dai bassorilievi del Sarcofago di Medea (140-150 d.C., Altes Museum, Berlino) dove, leggendo da sinistra a destra, si evincono i tre nodi chiave del dramma: situazione iniziale felice per Giasone, omicidio dei figli, di Creusa e di Creonte perpetrato da Medea, Medea in volo sul carro.
E con machina abbiamo finito, adesso ci rimane deus. Col passare del tempo, infatti, la machina da espediente scenico di grande effetto, divenne parte integrante dei copioni di molti drammi la cui trama intricata era divenuta inesplicabile, se non per il suo stesso autore, almeno sicuramente per buona parte degli spettatori, tipo Love Actually che guardo da 14 Natali a questa parte e alla fine mi aspetto sempre che Hugh Grant finisca con quello che fa Severus Piton e rimango puntualmente deluso. Quando l’intreccio diventava troppo complesso, talvolta l’autore, per dipanare la matassa, in conclusione della propria sceneggiatura si affidava all’intervento risolutore di una divinità, che dalla sua villa sull’Olimpo veniva calata sulla scena tramite l’uso della machina, un deus ex machina appunto, stabilendo come dovevano andare a finire le cose («tu perdona tua moglie anche se ti ha messo le corna con mezza Atene, tu altro hai ucciso tua madre quindi sarai perseguitato per un po’ dalle Erinni, quello là scompaia, quell’altro risorga, il tizio là se ne torni in patria, l’altro si trasferisca ad Argo e sposi la terza figlia nata dal secondo matrimonio con la quinta figlia di primo letto del secondo genito del topolino che al mercato mio padre comprò» SIPARIO).
Anche in questo caso ci avvarremo di un esempio e, per par condicio, dopo aver citato una tragedia greca ora useremo una commedia latina, per essere ancora più precisi – metti che Alberto Angela mi legge e non vorrei rovinare la storia d’amore che stiamo vivendo da anni nella mia testa – una fabula palliata, cioè una rappresentazione comica romana ambientata però in Grecia. Il nome deriva da pallium, un mantello di foggia molto ridotta usato nelle commedie greche e, stando alle ultime ricerche, da Alba Parietti tutte le domeniche pomeriggio all’Arena di Giletti. L’opera in questione è l’Anfitrione di Plauto (255 – 184 a. C.), esempio classico della «commedia degli equivoci», dove l’ironia è genera dalla confusione e dallo scambio tra i personaggi, in questo caso tra mortali e dèi che ne assumo l’aspetto. Anfitrione, re di Tebe, è partito per la guerra lasciando sola a casa la moglie Alcmena, preda degli appetiti sessuali di Giove che, approfittando della situazione, assume le sembianze di Anfitrione e si presenta alla reggia nelle vesti del marito di lei reduce dalla vittoria, accompagnato dal figlio Mercurio in tutto identico a Sosia, servo fedele di Anfitrione. Nel frattempo il vero Anfitrione rientra a Tebe e, stupito dalla fredda accoglienza della moglie Alcmena, la accusa di tradimento. Seguono una serie di incontri e scontri tra i due Sosia e i due Anfitrione senza che la vicenda riesca a chiarirsi. In più ci si mette di mezzo pure Alcmena che partorisce due gemelli, uno interamente umano, Ìficle, avuto da Anfitrione, uno semidivino, Ercole, frutto della notte d’amore con Giove. Sarà l’intervento conclusivo ex machina di Giove a spiegare come stanno le cose e a riportare serenità ad Alcmena, che ha sì tradito ma in buona fede, e ad Anfitrione, compiaciuto di avere una sposa desiderata addirittura dal padre degli dèi.
Come tutte le cose buone però c’è sempre chi ne abusa (ogni riferimento a fatti o a persone o all’inspiegabile velocità di dissoluzione dei vasetti di Nutella dalla mia dispensa è puramente casuale) e così è stato anche per il deus ex machina, che finì per essere usato un po’ dai drammaturghi non tanto bravi per risolvere una trama divenuta inesplicabile, un po’ dai critici per accusare chiunque vi facesse ricorso. Primo bersaglio fra tutti fu il povero Euripide, che era la Cinzia TH Torrini di Atene. Tanto che il commediografo Aristofane – per continuare la metafora diremo il De Sica di Atene – nelle Tesmoforiazuse arriva a rendere Euripide un personaggio della sua commedia e a farlo entrare in scena proprio sulla machina (che, dico, allora sei s*****o).
Dunque, data per scontata la divinità di Maria De Filippi, tuttavia definirla deus ex machina di Amici è errato. In verità, inoltre, quest’espressione si è affermata al giorno d’oggi soprattutto nel linguaggio del giornalismo politico e il suo impiego più adeguato in questo contesto è per definire un nuovo leader che si fa strada all’interno di una situazione generale di caos e frammentazione (viene da chiedersi come mai proprio la politica). Perciò sì, nel 1994 Silvio Berlusconi si è posto come deus ex machina del centrodestra italiano; sì, nel 2013 Matteo Renzi è posto come deus ex machina del centrosinistra italiano. Vi esorto dunque a usare (sì ‘usare’ non ‘utilizzare’ che è un francesismo, mentre in italiano abbiamo il bellissimo ‘usare’ erede diretto del latino utor) l’espressione deus ex machina a indicare non un semplice capo o figura di spicco in generale, ma solo quando il tale si pone come risolutore di una situazione bella ingarbugliata. Salvete et valete!
p.s. Immediatamente sotto potete trovare una gif che, secondo una ricerca americana, riproduce fedelmente cosa il 97% di voi che mi leggono dal pc avrebbe voluto farmi trovando Berlusconi e deus nella stessa frase.
p.p.s. Qui la reazione del restante 3%
[Eruditevi con le puntate precedenti de L'ora di latino]
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Il post Deus ex machina, ovvero dei provvidenziali aiuti divini, scritto da alepuntoacapo, appartiene al blog Così è (se vi pare).