La forza del gruppo di Tom Barman e Klaas Janzoons è sempre stata il saper combinare atmosfere intriganti col miglior rock di marca anglosassone. Ci sono riusciti con ottimi risultati almeno fino a The Ideal Crash, sopraffino esempio di scrittura pop applicata a consolidate strutture rock. Poi è iniziata la lunga fase calante del gruppo belga, i lavori successivi hanno cominciato a perdere la bussola, pur con qualche isolato guizzo (sparso qua e là nelle varie pubblicazioni, certo, ma nulla che si faccia ricordare, andando a memoria).
Allo stesso tempo risulterebbe ridicolo pensare che le migliori situazioni si possano riproporre paro paro con le stesse modalità di una volta. I Deus però commettono l’ingenuità di rifare proprio quei passi e purtroppo perdono in partenza, laddove una volta erano infallibili (a voi scovare i momenti più patetici del disco, ne abbiamo individuati almeno un paio). Non mancano frangenti dignitosi, sia chiaro: l’opening non è malvagio, la voce di Barman è ancora fiera della sua roca esposizione (vedi il pastiche noir di “Hidden Wounds”, che non dispiace per nulla) ma a conti fatti questo Following Sea pecca di un’evidente mancanza di ispirazione. Tutto ciò fa anche un po’ male, visto che per chi scrive sono stati un vero e proprio modello e ossessione (era la metà dei Novanta e, quando uscirono singoli come “Hotellounge (Be The Death Of Me)” e “Via” fu amore a prima vista), ma tant’è, questa è la situazione al momento. L’accettiamo senza batter ciglio e cerchiamo di scovare tra le pieghe di un suono-matrice (e di parole sempre e comunque importanti) quell’anelito che una volta ci faceva sussultare di gioia. In poche parole dobbiamo accontentarci di questo surrogato, non c’è altra via.