Il lavoro è poco, mal retribuito e, a volte, chi ce lo concede usa il manico del coltello per minacciare e ferire.
Non servivano i fratelli Dardenne per scoprire queste carte e non serviva la loro storia scarica e forzata per sensibilizzare un argomento stantio del quale oggi conosciamo vita, morte e alcuni miracoli. Il loro "Deux Jours, Une Nuit", dunque, arriva decisamente fuori tempo massimo, in ritardo, avvantaggiato dai suoi predecessori e quindi facilitato come assai prevedibile. Della Marion Cotillard alla ricerca dei voti dei suoi colleghi che possano riabilitarla a tornare al lavoro dopo il periodo di allontanamento dovuto alla depressione che l'ha colpita, allora, a noi interessano più i lineamenti del viso, le espressioni malinconiche gli occhi umidi e le cadute psicologiche che puntualmente la fanno allontanare per andare a piangere di nascosto, asciugata più che dai fazzoletti dalle pasticche di Xanax. Si, ci interessa più quello, come ci sarebbe interessato sapere di più della depressione che l'ha costretta a giocarsi la sua posizione, da dove veniva e se in qualche modo poteva essere legata anch'essa al lavoro, quello si che sarebbe stato nuovo. I fratelli Dardenne invece ciò lo archiviano a piè pari, lo mettono da parte, non d'aiuto alla loro causa che al contrario è concentrata a catturare le reazioni e le ragioni di chi, pur di avere un leggero aumento annuale, è disposto a votare a favore del licenziamento di una propria collega in difficoltà.
Così com'è "Deux Jours, Une Nuit" è disarmato, impossibilitato a poter scuotere il territorio che lo circonda, non manca di attirare attenzione, eppure ciò non è abbastanza per permettergli di lasciare un segnale tangibile, utile a ricordarsi di lui una volta giunti a chiusura. La speranza di una donna ritrovata e di una forza psicologica ricostruita è troppo poco per rendere la pellicola dei fratelli Dardenne degna di nota o rilevante più di chi l'ha anticipata.
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