[segue]
(ai maschi, con amore)
.
- Mi racconti una storia?
- Ti racconterò di Pinotto, il burattino.
Il papà di Pinotto era un informatico
che viveva da solo
e per farsi compagnia
aveva creato un robot
con la scocca in plastica
e l’interno riempito
di microchip e fili colorati.
La mattina appena sveglio
iniziava a telecomandarlo.
Pinotto ballava e cantava,
pronunciava frasi, poesie,
faceva conti con le quattro operazioni
e anche con qualcuna in più.
Era un burattino perfetto.
Quando tornava dal lavoro
il papà trascorreva tutto il tempo
con Pinotto, fino all’ora di dormire.
Di notte Pinotto se ne stava zitto e fermo.
A volte suo papà si svegliava
e se lo stringeva al petto.
Pinotto però restava sempre
zitto e fermo.
Così iniziò a pensare
che a Pinotto servisse altra compagnia.
Si ricordò di una bambina
che non andava a scuola, e decise
di prestarle il suo burattino di giorno
per insegnargli quello che a lui non riusciva.
Turchina
(questo era il suo nome)
aveva solo tre anni.
Il papà di Pinotto non sapeva
che Turchina giocava duro con Pinotto
il quale, sera dopo sera,
tornava sempre più ammaccato.
Una volta arrivò a spezzargli il collo.
Dal buco sotto il mento uscivano fili,
cavi e microcip. Pinotto non si muoveva più.
Senza perdersi d’animo Turchina
cercò di riassemblarlo: prima
ci sputò dentro, poi lo cosparse di colla,
e infine fece combaciare i lembi
e gli strinse attorno tre giri di scotch.
Il papà di Pinotto impallidì
vedendo come era conciato,
ma non rimproverò Turchina,
che d’altronde era solo una bambina.
Mise Pinotto sopra il suo scaffale,
mangiò in silenzio e se ne andò a dormire.
Nella notte, lo sputo corrosivo di Turchina
finì col fondere assieme i circuiti e i cavi
tranciati, la colla si indurì e Pinotto
fu infine rianimato da una misteriosa luce
che scendeva come un faro
nella stanza.
Quando suonò la sveglia, Pinotto saltò
da solo giù dallo scaffale e andò a svegliare
suo papà dicendo “Ho fame”.
Il padre ebbe bisogno di numerose
tazze di caffè prima di convincersi
di non stare sognando.
Pinotto era diventato
un bambino vero.
- Ma questa è la favola di Pinocchio!
- No, è quella di Pinotto. Ascolta.
Quella volta Pinotto e il padre
restarono in casa a ballare e cantare
senza bisogno di telecomandi
né di ricaricare le batterie.
Ma dal giorno dopo Pinotto
dovette andare a scuola
e, dato che era un bambino
intelligente e già piuttosto colto,
se ne andò dritto dritto
in prima elementare.
Non amava la scuola,
ma almeno ottenne
di non vedere più Turchina per tre anni.
Finché, era settembre, se la trovò
seduta al tavolo della sua stessa mensa.
Fu così che riprese il tormento.
Giocava duro con lui a ricreazione,
a pranzo, in giardino, in bagno,
e Pinotto tornava a casa ogni giorno
sempre più ammaccato.
Finché una volta non gli spezzò il collo.
Pinotto non si muoveva più,
ma invece di portarlo in ospedale,
suo padre se lo riprese a casa.
Di notte tornò a essere un burattino
con la scocca di plastica e fili e chip
sbordanti dall’incastro del collo con le spalle.
Turchina, che si sentiva in colpa,
si intrufolò in casa sua, una sera,
chiedendo se ci fosse dello zucchero.
Raggiunse di soppiatto il burattino,
e tentò di nuovo l’incantesimo:
gli sputò dentro, usò lo scotch e la colla,
e, uscendo con lo zucchero
ricevuto da quel tonto del padre,
lasciò Pinotto sullo scaffale, fiduciosa.
La notte un raggio calò
dal centro della stanza
e il giorno dopo Pinotto
era un bambino vero.
Di sei anni.
Ancora.
Dovette ricominciare il ciclo elementare,
stavolta in classe proprio con Turchina.
La maestra, convinta di fargli un favore,
lo sistemò in banco con la presunta amica.
Pinotto era un bambino fine, poetico,
sveglio, vivace, ma fragile.
Così, tanto per non sbagliare,
per mettere subito in chiaro
il proprio punto di vista,
firmò con cinque nocche
il sorriso soddisfatto di Turchina.
Prese lo zainetto e lo scagliò
contro la maestra,
quindi se la diede a gambe
saltando giù dalla finestra aperta.
- È vero, non c’entra niente con Pinocchio.
- Infatti. Questa storia parla
di violenza di genere.
Fabrizio De André – Il Bombarolo