Ieri sera, guardando il Tg3, pensavo che il giornalismo non fa il suo mestiere quando si limita a enunciare un fatto di cronaca (nera, come nel caso del neonato morto dopo soli ventitré giorni di vita) costruendoci sopra della retorica a buon mercato: colpa di questa istituzione, colpa della gente, dei regali di natale e via raschiando il fondo del barile dei cliché dickensiani.
Quando succede una cosa così grave, io sinceramente vorrei capire. E non capisco se non vado a fondo. E visto che ho il mio lavoro e non abito a Bologna, la funzione dei mass media sarebbe proprio quella di fare il lavoro sporco per me, cioè di andare a verificare alla fonte (alle fonti) primaria: le persone direttamente coinvolte, la famiglia, i parenti, chi ha parlato veramente con loro.
Per fortuna, al terzo giorno dall'evento, le cose cominciano a venire fuori. Sulla Repubblica, ad esempio, compaiono non solo un articolo generale e un'intervista al commissario comunale (o prefettizio: in due articoli diversi viene citata con due titoli diversi), ma anche una al padre del bambino. E si comincia a capire qualcosa.
Che la madre 37enne e il padre 45enne del bambino hanno, di fatto, un appartamento in affitto (pagato fino a febbraio, precisa l'uomo, che svolge lavori saltuari, ma li svolge e quindi non è del tutto privo di liquidi) ma non ci stavano molto.
Che la donna - non tossicodipendente e senza problemi psichiatrici accertati - ha avuto in tutto cinque figli da tre uomini diversi, di cui i primi tre sottrattile dai servizi sociali, che a suo tempo si erano resi conto del suo disagio e della sua incapacità di gestire i figli.
Che alle visite degli assistenti sociali (l'ultima in dicembre) spesso non si faceva trovare, che cambiava numero di telefono di continuo e che aveva il terrore che anche i gemelli le venissero sottratti.
Peraltro il padre ci tiene a dichiarare che il 118 l'ha chiamato lui, che al neonato venivano dati sette pasti al giorno, latte artificiale come indicato da un medico, e che l'altro gemello non è morto.
La loro strategia di sopravvivenza era negare di avere dei problemi. E con persone adulte, sane di mente, che dichiarano di non aver bisogno di aiuto (la coppia non era andata neanche alla cena offerta dalla Caritas, benché invitata) gli operatori sociali devono fare un passo indietro. Forse anche perché, conoscendo i precedenti, si facevano scrupolo a togliere alla madre anche gli ultimi due nati.
Quello che mi sembra traspaia in controluce in questa faccenda dolorosa è una certa incapacità dei media e degli operatori sociali a immaginare che una persona povera possa anche rifiutare di farsi assistere. Che alla condizione di materialmente povero si associ sempre e comunque la scelta di farsi assistere, di mettersi sotto qualche ala protettrice, di chiedere aiuto.
Non passa loro neanche per la testa che ci possano essere persone che si vergognano, che si sentono umiliate, che sono troppo orgogliose o troppo impaurite per fare certi passi. Anche quando sarebbe nell'interesse dei loro figli, certo.
Anche quando il primo pensiero che ci viene dall'alto e dal caldo delle nostre case col frigo pieno è: avrebbero fatto meglio a non fare figli.
Alla fine di queste letture non ho ancora capito chi sia il colpevole. Forse ho capito solo che si fa presto a puntare il dito su qualcun altro (Caritas vs. Comune, giornali vs. "bolognesi indifferenti", Comune vs. genitori etc.) e che l'importante è poter dire non è stata colpa mia.
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