Magazine Cultura
Avevo 24 anni e stavo scrivendo la tesi quando, per non so quale aggancio o conoscenza, mi fu proposto di partecipare come osservatrice ad un progetto di formazione coordinato da un'importante professoressa del mio campo. Era la mia prima esperienza e non sapevo ancora che di lì a qualche mese la formazione sarebbe diventato il mio lavoro, sapevo che il nome della professoressa era importante, che il progetto si presentava come curioso ed interessante e che avrei dovuto lavorare per due settimane in aula con studenti di seconda media.
Il progetto aveva come obiettivo quello di promuovere lo spirito imprenditoriale nei ragazzi: per un'intersa settimana, cinque giorni di seguito, l'equipe di progetto si sostituiva agli insegnanti dei ragazzi e riempiva le loro aule di giochi, discussioni, cartelloni, riflessioni su sé stessi e tutto il panorama delle metodologie della formazione psicosociale.
Il progetto era in fase sperimentale e il compito delle osservatrici era, appunto, di osservare il processo e prendere nota di tutto ciò che accadeva, soffermandosi in particolare sulle attività delle formatrici, sulle reazioni dei ragazzi, su eventuali intoppi.
Non avevo mai lavorato né con i gruppi né con gli adolescenti e per me fu una rivelazione assistere alla magia del gruppo in formazione, vedere come a poco a poco i nomi si legassero e sovrapponessero ai visi dei ragazzi, come l'iniziale diffidenza si allontanasse e trasformasse, giorno dopo giorno, i visi dei ragazzi da indifferenti e spesso distanti a partecipi, sorridenti, amichevoli. Era la nascita della relazione, delle relazioni di gruppo e per me era magia pura. Quei cinque giorni mi sembrarono ogni volta un'eternità.
Seguii due percorsi e ogni volta alla fine furono baci, abbracci, lacrime di commozione e promesse di vedersi e sentirsi: non c'erano ancora facebook, le email ed i cellulari, ma se ci fossero stati, quello sarebbe stato il momento dello scambio di ogni tipo di contatto.
Ma il ricordo che porto nel cuore è legato ad una delle insegnanti che conobbi in quell'occasione.
Gli insegnanti non erano obbligati a stare in aula, anzi, spesso, la nostra speranza era che trovassero altro da fare, perchè la loro presenza inibiva i ragazzi e le attività: la maggior parte non riusciva semplicemente ad osservare, interveniva, soprattutto per riprendere i ragazzi nei momenti di maggiore vivacità, e questo era esattamente quello che noi non volevamo.
A volte, però, alcuni insegnanti capivano l'importanza di quello che stava accadendo e sceglievano di restare in aula e partecipare osservando, resistendo alla tentazione di svolgere per l'ennesima volta il ruolo di cerbero controllore.
E quello che succedeva era che, nell'arco dei cinque giorni, con la complicità di un percorso giocoso attraverso le attitudini, gli interessi e le capacità e competenze dei ragazzi, questi alunni smettevano di essere alunni e diventavano persone, ricche, piene, differenti, importanti e belle nelle loro diversità.
Salutandomi, quel giorno, l'insegnante di italiano che era stata con noi per tutti i cinque giorni mi disse: "Grazie, è stato bellissimo. Come farò a guardare ancora questi ragazzi con gli stessi occhi della scorsa settimana? Ora li ho visti per quello che sono, con mille capacità ed interessi. Come potrò più bocciarli o mettere un brutto voto? Li ho visti per la prima volta nella loro ricchezza, ora per me sono tutti delle belle persone".
Mi capita spesso di raccontare questo episodio ad insegnanti durante i corsi di formazione e ogni volta fatico a trattenere la commozione... non so quanti insegnanti colgano veramente l'importanza di guardare ai propri allievi come persone e non come cassetti in cui immagazzinare nozioni, non so quanti insegnanti possano portarsi a casa questo mio ricordo e rifletterci un po' su... ma penso che se anche uno solo potesse ricordare entrando in aula che l'obiettivo non è portare a termine il programma ma formare degli uomini e delle donne, tanti adolescenti vivrebbero la scuola e la vita in modo diverso.
Sarò un'utopista... chissà?!
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