Di cosa è fatto l’amore: Le inutili vergogne di Eduardo Savarese

Creato il 21 maggio 2014 da Diletti Riletti @DilettieRiletti

Iniziamo con una banalità: leggere significa anche immergersi in vite altrui, che non hanno punti in comune con la nostra e che tuttavia, attraverso la scrittura, con la nostra entrano in comunione. È così che ci si compenetra con questo o quel personaggio che nel viaggio dalla carta ai nostri occhi diventa carne, carne dolente o gioiosa, ma parte vitale inscindibile della nostra. Alla fine della lettura, quel personaggio con la sua letizia e il suo dolore parrebbe destinato a scomparire, invece resta in noi, in tono minore, ma non silente, in un processo di introiezione e di sedimentazione di materia viva.

Così, leggendo Le inutili vergogne di Eduardo Savarese, non potevano non risvegliarsi in me le voci del suo precedente romanzo, Non passare per il sangue. E non soltanto per via del tema dell’amore impossibile, negato, non soltanto per il tema pur centrale dell’omosessualità del protagonista. Molto più perché i personaggi di Luca e Marcello paiono rivivere, più maturi e complessi e sofferti, in Benedetto e Gaetano, evolvendo verso un esito forse necessario. Il rumore di ingranaggi, un ticchettio costante e teso, che faceva da sottofondo al primo romanzo, accelera in questo in un crescendo che prelude all’inevitabile deflagrazione. E mentre nel primo romanzo tutto pare ricomporsi in una silenziosa accettazione della realtà, qui l’esplosione spezza e spazza acquiescenza, ipocrisie, perbenismi, seminando schegge di dolore, e insieme possibilità di ricomposizione, di guarigione di antiche ferite.

Benedetto è un uomo-puzzle, un’identità in pezzi che cerca un equilibrio incastrando a forza ciò che deve essere per il mondo e ciò che intimamente è, la fede e la disperazione, la carne e lo spirito. Tutta la sua vita, fino a quei momenti che viviamo nel libro con lui e sulla nostra pelle, è stata una continua, estenuante ricerca di qualcosa che gli è necessaria e tuttavia continua a nascondersi, tra i capelli delle Barbie, nei riflessi di uno specchio o in un rossetto che è insieme colpa e ammissione di colpa.

Sarà Nunziatina, essere ibrido e apparentemente ridicolo, trans scomposta che porta in seno i frutti immaginari dei suoi amori più veri, a rivelarsi per Benedetto l’angelo-guida verso la trasfigurazione definitiva; sarà la voce di Nunziatina a sancire la liberazione di Benedetto, l’accettazione di se stesso oltre le proprie inutili vergogne e le altrui imposizioni.

Tu ti sei liberato, Benedetto! Ti sei liberato davanti a tutti! Mo’ tutti sanno che le Barbie le vestivi perché la prima Barbie eri proprio tu! Che tieni le mani nelle cose delle femmine così ti senti meno in colpa a non fare figli tuoi!

Anche in queste parole torna prepotente il rimpianto misto al senso di colpa di non passare attraverso il sangue, di non moltiplicarsi come vorrebbe la legge divina. Bisogna invece trovare una nuova legge, di misericordia e fede, per accettare questa verità: l’amore non ha bisogno di passare necessariamente attraverso la riproduzione, l’amore può essere fatto di slanci purissimi (come nel caso della zia Gilda che pare ricordare l’amorosa estasi di Santa Teresa) e di dionisiaci abbandoni (come nell’efebica figura di Gaetano e -nel primo romanzo- di Marcello). L’amore ha le sue strade infinite, che vanno oltre le contingenze, le grottesche separazioni tra generi e le vergogne: tocca alla ragione accettarle e farne una filosofia più umana e sincera.

Un’ultima notazione (tante ce ne sarebbero, ma scriverei un altro romanzo su questo di Eduardo): come dicevo, i personaggi paiono richiamarsi l’un l’altro nei residui vivi delle nostre letture. È stato così che ho sentito in una storia del tutto diversa l’eco della ricerca di Benedetto, in particolare nelle riflessioni di William Stoner, uomo “colpevole” di aver vissuto senza vivere, senza mai scegliere di essere diverso da sé.

…una dignità che ha poco a che fare con la follia, o la debolezza, o l’inadeguatezza dei suoi comportamenti privati. Era una consapevolezza che non poteva esprimere ma che, una volta acquistata, faceva di lui un uomo diverso al punto che nessuno poteva più evitare di accorgersene.

Mentre Stoner, alla fine dell’esistenza, risolve il senso di manchevolezza di una vita nella coscienza della propria dignità, noi lasciamo Benedetto ancora sotto il peso di tale inadeguatezza, ma già lungo il percorso che lo porterà all’accettazione di sé:

[la consapevolezza…] del sentirsi sempre inadeguati – anche ora, sebbene un poco meno del solito –, della croce di essere come si è, fino in fondo, del sentirsi alleggeriti dalla schiavitù del giudizio…


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