Isaiah Berlin
di Michele Marsonet. Capita, a volte, che anche nella mente di coloro che aderiscono toto corde ai valori fondanti del liberalismo occidentale si insinuino idee “eretiche”, magari ispirate da un’analisi realistica (o, se si preferisce, non ideologica) della realtà politica e sociale contemporanea.
Provo allora a formulare una tesi che molti giudicheranno senz’altro “scandalosa” e degna di essere cassata senza troppi commenti. La tesi, in sostanza, è la seguente. Se si escludono Europa, Nord America e Giappone, nella stragrande maggioranza delle altre nazioni del nostro pianeta la repressione della dissidenza politica può essere biasimata solo in linea di principio, tenendo però presente che essa si rivela quasi sempre necessaria per evitare che un certo Paese precipiti nell’anarchia e nella guerra civile.
So bene che una simile affermazione è un pugno nello stomaco per chi considera Isaiah Berlin, Karl Popper e Raymond Aron (e molti altri, ovviamente) quali maestri ineguagliabili della filosofia politica. E desidero ribadire che non considero affatto superate le loro idee.
Si dà il caso, tuttavia, che tra idee e realtà esista sempre uno iato difficile da colmare, soprattutto quando gli strumenti dell’analisi teorica devono confrontarsi con la concretezza dei fatti e degli avvenimenti. Non parlo – ed è importante ribadirlo – di fatti e avvenimenti ormai consegnati alla storia, poiché in quel caso il giudizio è rivolto al passato.
Intendo, invece, eventi che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi, qui e ora, eventi che risentono inevitabilmente delle passioni riferite a un presente del quale è sempre difficile decifrare il significato. Ammesso, tra l’altro, che il significato sia uno soltanto. Come tutti sappiamo, tale contesto è dominato da un continuo “conflitto dei valori” di cui molto hanno scritto Max Weber e Isaiah Berlin.
Faccio alcuni esempi. La Cina, a dispetto dell’apparenza monolitica della sua attuale forma di governo, è attraversata da tensioni ben più forti di quelle che appaiono in superficie. Si tratta di tensioni economiche, politiche, sociali e pure etniche. Qualcuno crede davvero che Pechino riuscirebbe a tenerle a freno senza reprimere i numerosissimi focolai di dissidenza interna? Ovviamente no, e aggiungo che esse, qualora lasciate libere di esprimersi, causerebbero un’esplosione destinata a riverberarsi subito sullo stesso mondo occidentale.
Altro caso eclatante è la Turchia. Lo stile di “governo” adottato da Erdogan è senza dubbio odioso, e molti si stupiscono per l’arrendevolezza dell’Unione Europea nei suoi confronti. Ma proviamo a immaginare cosa accadrebbe se alle innumerevoli fazioni turche venisse lasciata una completa libertà d’azione. Ne seguirebbe una situazione ancor più caotica dell’attuale, e sarebbe proprio l’Europa a patirne per prima le conseguenze.
Per non parlare dell’Egitto. L’indignazione per le politiche repressive di Al-Sisi è, sempre in linea di principio, giustificata. Chi s’indigna trascura però un elemento fondamentale. E cioè che, senza l’avvento dei militari, oggi avremmo la più importante nazione del mondo arabo dominata dai Fratelli Musulmani.
Cina, Turchia ed Egitto sono, tra l’altro, solo i tre esempi più noti. In realtà lo stesso ragionamento può essere applicato in una miriade di contesti, partendo da monarchie ed emirati arabi per finire con le Repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale.
La repressione del dissenso, insomma, è di per sé un fatto esecrabile, ma può rivelarsi utile quando si hanno elementi per ritenere che altri approcci genererebbero danni ben peggiori.
Capisco che le obiezioni a un simile modo di ragionare sono tantissime e, nella maggior parte dei casi, addirittura scontate. Resta però l’impressione che sia meglio chiudere un occhio sui principi quando l’alternativa disponibile è solo il puro caos.